“Ora che Maria Rita si è uccisa, noi ex boss invochiamo lo Stato”
(di Enrico Fierro e Lucio Musolino)
Parente uno: “Amico mio, se noi Logiudice fossimo ancora quelli di una volta, una famiglia di mafiosi potenti, avremmo fatto saltare l’università che frequentava la povera Maria Rita. Avremmo preso uno a uno i suoi compagni per i capelli e li avremmo interrogati. Invece ci appelliamo allo Stato, alla giustizia, a quelli che per noi erano sbirri e infami, e quando li nominavamo sputavamo per terra per pulirci la bocca”. “Ogni volta che si parla di noi si parla di mafia” Reggio Calabria, il sole accarezza lo Stretto e lo riempie di colori, gli stessi che una ragazza bella e con tutta la vita davanti ha visto domenica mattina per l’ultima volta. Prima di lanciarsi nel vuoto per farla finita. Maria Rita Logiudice, 24 anni, una laurea in Economia, la voglia di fare, conoscere, affermarsi, girare il mondo. Una insaziabile fame di libertà e di riscatto. Tutto finito all’inizio di una giornata di primavera. Perché? Il suicidio è una scelta che non prevede risposte affrettate. Qualcuna l’abbiamo cercata parlando con due familiari. Non vogliono essere nominati, e per questo li chiameremo “Parente uno” e “Parente due”. Il primo: “Ogni volta che si parla di noi si parla di mafia. Il padre di Maria Rita non è un boss, è in galera ma non è un mafioso. Ci sono ragazzi suoi amici, figli di papà che non sanno come si vive, che le hanno mostrato le foto sul cellulare. Questo morto ammazzato è tuo nonno? E quest’altro, Nino il nano, è tuo zio? Con queste cose qui le hanno avvelenato la vita. Eppure lei stava cercando di costruirsi un futuro diverso, studiava, leggeva, voleva specializzarsi. La sua è una generazione che vuole uscire da queste storie di mafia, anche se porta un cognome pesante. Ci sono tanti ragazzi che non vogliono più sentire parlare di ’ndrangheta , perché hanno visto la vita dei loro padri. Gente che ha sbagliato e sta pagando”. Parente due: “Dopo il ritorno dalla gita a Bruxelles, un mese fa, Maria Rita appariva agitata, si sentiva perseguitata, faceva discorsi strani. Forse le hanno messo della droga nella birra che ha bevuto la sera prima di ripartire. Adesso vogliamo vederci chiaro, per questo come famiglia abbiamo chiesto l’autopsia e gli esami tossicologici”. Medici, analisti e giudici ci diranno cosa aveva nel corpo la povera ragazza. Cosa le tormentava l’anima, invece, è già drammaticamente chiaro. La malvagità innanzitutto. La cattiveria immensa vomitata dalle viscere infette della sua città.
La “famiglia”: l’omicidio di don Peppe ad Acilia.
Maria Rita muore domenica 2 aprile, il 4 qualcuno apre la sua pagina Facebook (c’è un post di febbraio con la foto della visita al cuore finanziario dell’Europa) e scrive tre parole: “La ruota gira…”. Una frase schifosa, ambigua. Pericolosa. Nessuna pietà per la morte di una giovane, neppure un briciolo di comprensione per la vita difficile di una ragazza vissuta nel grembo malato di una famiglia di mafia. Sedici figli, undici maschi e cinque femmine, mariti e mogli con i loro figli, e nipoti, cugini. Una tribù, quella costruita da Giuseppe Logiudice, ’u melunaru. Lo chiamavano così perché la specialità della famiglia erano i banconi della frutta. Don Peppe lo ammazzarono il 14 giugno del ’90 ad Acilia, borgata di Roma. Spararono a pallettoni e insieme al boss freddarono il cognato che gli faceva da autista, il figlio Pietro, invece, si salvò perché si finse morto. Morte violenta, da vero capo, perché così si moriva nella seconda guerra di ’ndrangheta, quella tra i De Stefano e i Condello. Agguati, trappole, tradimenti e “tragedie”. A don Peppe, che nella guerra era schierato contro di De Stefano, ammazzarono il figlio Salvatore e poi gli fecero recapitare un bigliettino. Per fargli credere che a commettere quella infamità (l’uccisione di un figlio maschio) fossero stati i suoi alleati. Era un modo, hanno raccontato i pentiti, per costringerlo a cambiare schieramento. Si moriva in Calabria e fuori dalla regione nella famiglia Logiudice. Quelli che chiamavano “i piccoletti” perché i maschi erano bassi di statura. Tanto che Antonino si guadagnò l’appellativo di Nano. “Nino il Nano”, il secondo pentito della famiglia dopo Maurizio. Ecco, questa è un’altra caratteristica dei Logiudice, i pentiti. Che parlano, accusano i fratelli, imbastiscono “tragedie”. Il più bravo di tutti è proprio lui, “Nino il Nano”. Si è pentito una prima volta, ha parlato degli affari della famiglia, ha coinvolto i fratelli, ha fatto il nome di giudici e politici amici, poi ha ritrattato facendo il pazzo, fino a pentirsi di nuovo.
Le donne scomparse e i discorsi delle amiche
E le donne scomparse. Angela Costantino, la moglie di Pietro, che si sposa appena ragazzina e a 25 anni ha già quattro figli. Sparisce il 16 marzo 1994. Aveva un altro uomo. Una colpa grave che nelle famiglie di ’ndrangheta si paga con la vita. Anche Barbara Corvi sparisce una sera del 2009. È la moglie di Roberto Logiudice, anche lei cercava un’altra vita, forse con un altro uomo. In questo ambiente è cresciuta Maria Rita. Le amichette, a Natale, parlavano del pranzo con i nonni. Lei il suo non lo poteva nominare. E poi quei visi lunghi, tristi, l’odio respirato in casa quando si parlava di Maurizio, suo zio, che fece la scelta di pentirsi. E Nino, il Nano, che perse la testa e rovinò tutti. Queste le parole, i sentimenti, i rancori che si accumulano nell’anima crescendo in una famiglia di ’ndrangheta. E allora la vita di Maria Rita, i suoi sorrisi, i suoi successi negli studi, la sua voglia di liberarsi dal fardello di patti di sangue, giuramenti, fedeltà, vendette e “tragedie”, è la straordinaria testimonianza di un faticoso e difficile atto di eroismo. Una lezione per tutti.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 7 aprile 2017)