Storia di ordinaria scuola di periferia

di Silvia D’Egidioscuola-di-periferia

Non c’è niente da fare, due settimane di supplenza in una scuola di periferia ti rimangono attaccate alla pelle. Lo capisci subito, entrando attraverso il cancello diroccato, che non farai la solita lezione nella solita classe. Speri in ogni caso di fare la differenza.

Due settimane sono poche e lo sai, ma non ci pensi. Dalla tua hai l’entusiasmo e la voglia di dedicarti al questo lavoro, quello nel quale non speravi più e per cui sai di essere tagliata. Inizi a tirar fuori il tuo sorriso migliore, la battuta più divertente, pensi ad una strategia accattivante per averli in pugno, ti ripeti “in fondo è solo una prima media, che sarà mai!”. Pensi e ripensi a questo mentre con una mano in tasca e l’altra avvinghiata alla borsa, cammini per il corridoio della scuola che risuona dei tuoi passi e ancora di più dei tuoi pensieri.

Il collega mi accompagna in classe e lì accade l’impossibile.

C’è chi grida, chi corre, chi fa a pugni, chi lancia oggetti dalla finestra, chi sale in piedi sul banco, chi scappa dalla scuola, chi impreca. Eccoli i ragazzi di vita, figli della strada, vittime del disagio sociale, inascoltati, invisibili. Immediatamente realizzo che le mie ‘armi spuntante’ non valgono nulla di fronte a ragazzini che dalla vita sono stati appena sfiorati eppure ne conoscono già tutte le declinazioni più brutte.

Il tempo di voltarmi per scrivere il mio nome alla lavagna e una ragazzina della classe viene spintonata da uno dei suoi compagni. È a terra in lacrime. La aiuto ad alzarsi e domando agli altri chi è il responsabile dell’azione. “Professore’ è stato…” grida una voce dall’ultima fila che è prontamente messa a tacere dalla malcapitata con un “statte zitto nu’ fa l’infame!”. Rimango basita. Non si è l’imitata a dire ‘non fare la spia’, no. Ha detto proprio “infame”, una parola che ti porta alle soglie di un mondo fatto di silenzi ed omertà, di ritorsioni e vigliaccheria: il regno della criminalità. È un mondo questo che non ha confini o dialetto. Il suo è un linguaggio universale che attecchisce ovunque come un fungo ma che come un fungo non ha radici. È estirpabile.

“Ben venuta in trincea” mi sussurra il collega all’orecchio prima di uscire dall’aula. Già, una trincea, e le uniche vittime sono proprio loro. Come glie lo spieghi, come fai a far capire ad una classe così che un’alternativa esiste, che i confini del mondo non sono quelli della periferia, che studiare è importante e che anche loro possono fare la differenza? È un compito difficilissimo, è un’impresa eroica. L’unico che può riuscire nell’intento è l’insegnante, l’eroe incompreso di questo tempo, che con coraggio e abnegazione, ma soprattutto consapevole del sacrificio che questo lavoro comporta, si fa carico di una responsabilità grandissima.

Il pensiero va subito a Pier Paolo Pasolini, il mio eroe personale che a due passi da questa scuola ha trovato la morte, e alle sue parole coraggiose e senza tempo: “Voi giovani avete un unico dovere: quello di razionalizzare il senso di imbecillità che vi danno i grandi, con le loro solenni Ipocrisie[…] Purtroppo invece l’enorme maggioranza di voi finisce col capitolare, appena l’ingranaggio delle necessità economiche l’incastra, lo fa suo, l’aliena. A tutto ciò si sfugge solo attraverso una esercitazione puntigliosa e implacabile dell’intelligenza, dello spirito critico. Altro non saprei consigliare ai giovani.”

Genio. In due parole ha esaurito il discorso. Pasolini li ha amati profondamente i suoi ragazzi di vita e a loro, e a noi, ha lasciato un’eredità inestimabile che andrebbe ricordata ogni giorno. Questo dovrebbe fare la scuola. Invece l’unico strumento che hai sono granitici programmi istituzionali, interrogazioni, compiti in classe e poi i voti, lapidari, anonimi, letali. “Ma chi te lo fa fare, questi sono ragazzi senza futuro” mi dicono. Eccolo il più grande dei crimini: togliere la speranza ad un giovane. Ma come si fa a ragionare così, come può non importare che questi ragazzi, che tutti i ragazzi, imparino a collaborare, a sviluppare uno spirito critico, a comprendere la realtà che li circonda?

Suona la campanella, l’ora è finita. Raccolgo le mie cose ed esco dalla trincea. È solo la prima giornata, la guerra è ancora tutta da combattere e io voglio essere lì, in prima linea accanto a loro, con le parole di Pasolini come unica ‘arma’ per vincere, vincere insieme ai miei ragazzi.