“Fate presto: non lascerò senza lavoro i miei operai”

Rubbles and destroyed houses in Camerino, near Macerata, a day after two big earthquakes shook central Italy, 27 October 2016. At least 200 aftershocks followed the first of two big earthquakes to hit central Italy on Wednesday, the National Institute of Geophysics (INGV) said Thursday. The first 5.4 magnitude quake struck at 19:10 Italian time and was followed by an even bigger one, of magnitude 5.9, at 21:18. But there were at least 200 aftershocks too. ANSA/ CRISTIANO CHIODI
Sono stati i suoi operai a convincerlo. Si sono asciugati gli occhi, lo hanno abbracciato e gli hanno detto poche parole: “Non molliamo”. Norcia, nucleo industriale, un campo di battaglia di capannoni feriti. Molti a morte. La fabbrica di prosciutti, quella di cioccolato artigianale, la fabbrica dove si lavorava il legno. Qui ci sono i capannoni di Massimo Salvi, meccanico. Ripara di tutto, autobus, trattori, veicoli industriali, macchine private di ogni marca e cilindrata. La scossa di domenica ha inferto il colpo mortale a quella che è la sua vita. I PILASTRI di due capannoni si sono afflosciati sotto i colpi di maglio del terremoto. I tetti sono venuti giù schiacciando due trattori, un camion con rimorchio, le attrezzature e i ponti per la riparazione dei veicoli. Il magazzino è inaccessibile, almeno 500 mila euro di materiale in balia dei crolli e degli sciacalli che di notte fanno razzia. Un inferno. “Quando domenica sono venuto a vedere cosa era successo, mi sono sentito morire. Volevo mollare tutto e andar via”, racconta con un groppo in gola. Il sogno di una vita spazzato via nei pochi secondi della scossa più terribile dal terremoto dell’Irpinia (1980) a oggi. Nella mente di Massimo, i quarant ’anni di sacrifici per mettere su la sua azienda: “Sono figlio di contadini poveri, a 14 anni appena fatti e con i calzoni corti che mi ballavano addosso, mio padre mi disse che dovevo trovarmi un lavoro. A casa non c’è pane per tutti. E chi lo dimentica quel giorno! Da allora mi sono dato da fare”. GIORNATE INTERE di lavoro per strappare il mestiere a chi lo conosceva meglio di lui. E altre ancora a lavorare senza fermarsi con in testa un pensiero fisso: farcela, mettersi in proprio, costruirsi la “sua”officina. “Ce l’avevo fatta, tre capannoni, 18 operai, tre dei miei figli al lavoro con me. Una famiglia più che un’impresa, con un padrone che si sporca le mani e la tuta di grasso come i suoi operai”. Molti giovani, tutti con famiglia. Sono nel piazzale a rischiare l’osso del collo per recuperare materiali e attrezzi di lavoro. Più giù c’è un altro capannone, il sisma sembra non averlo ferito, è il posto buono per ricominciare. “E pensare che avevo fatto tutte le cose in regola. Il capannone crollato l’ho tirato su nel 1995, ingegnere progettista e la ditta che lo ha realizzato mi assicurarono che era antisismico. Può resistere a scosse dell’ottavo e del nono grado, dicevano. Che beffa”. GLI OPERAI non si fermano. Tirano fuori dalle macerie trapani, banchi di lavoro, attrezzi. Il “padrone” li invita ad essere prudenti. È pericoloso. “Nessuno ci dà una mano. Io non chiedo soldi. Mi rifiuto di mettere gli operai in cassa integrazione. La mia gente non ha la mano tesa per chiedere l’elemosina, vogliamo solo essere messi in condizione di lavorare che qui il pane ce lo sappiamo guadagnare. Se mi aiutano a tirar fuori parte del magazzino e alcuni attrezzi e demoliscono i capannoni pericolanti, me la vedo da solo. Metto i miei soldi, faccio un nuovo mutuo con la banca, ricostruisco tutto”. Si chiama dignità. Rispetto di se stessi e della propria vita. Si chiama voglia di andare avanti. Ma Massimo Salvi non sa che c’è un nemico più terribile del sisma: la burocrazia dell’emergenza. Gli hanno detto che per avere le prime perizie passeranno due mesi. “Ma così rischio di morire”. Sessanta giorni di attesa in un posto dove a dicembre e gennaio si arriva a temperature sotto lo zero. “E allora faremo da soli, io e i miei operai”. Le ultime parole prima di lasciare il taccuino del cronista. Perché qui perdere tempo in chiacchiere è un lusso. FARE PRESTO, muoversi. È l’appello che gli imprenditori della zona hanno lanciato anche ieri al presidente Sergio Mattarella in visita a Norcia. Qui rischia di morire l’industria del turismo religioso, quella dell’agroalimentare di qualità, le campagne sono in crisi. Per la Coldiretti c’è il rischio che solo nel settore agricolo e zoo tecnico scompaiano diecimila posti di lavoro. Per gli allevatori, è l’appello lanciato dal presidente dell’associazione Roberto Moncalvo, la parola d’ordine è restare vicino alle loro bestie. E allora servono container per vivere, stalle prefabbricate. Aiuti. Nell’attesa, anche nelle campagne la gente si è tirata su le maniche e comincia a fare da sé. Soluzioni di fortuna, baracche per dormire e ricoveri per gli animali. Ma non basta.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 3 novembre 2016)