Obiettivo: insabbiare Mafia Capitale
(Di Enrico Fierro e Valeria Pacelli)
A Roma la mafia non esiste. Non “deve” esistere. Quindi se la mafia (quella con coppola in testa e lupara a tracolla) non c’è, anche un’inchiesta, che i giornali impropriamente hanno chiamato addirittura “Mafia Capitale”, non ha motivo di esistere. Il procuratore Giuseppe Pignatone e i suoi pubblici ministeri hanno lavorato tanto e sono stati generosi, ma non hanno scoperto la Cupola sotto il Cupolone, al massimo una sgangherata accolita di mariuoli, cravattari, grassatori, che in combutta con qualche politicante di infimo rango ha rubacchiato un po’ di danari pubblici. E che sarà mai?
Infine, a provare (ma questa volta in modo definitivo e addirittura tombale) l’inesistenza di una qualche Cosa Nostra alla carbonara, le recenti 116 richieste di archiviazione per una serie di personaggi coinvolti. 116, apparentemente un numero enorme, e tanto basta ai giornali per inanellare una serie di giudizi definitivi: inchiesta-bolla di sapone, inchiesta morta, mafia capitale non esiste e così via. Dimenticando due cose. La prima, e forse più importante, visto che dimostra, nonostante i mille problemi, il funzionamento del nostro sistema giudiziario: a chiedere le archiviazioni è stata la stessa Procura. I pubblici ministeri, vagliate una serie di testimonianze, fatti i confronti del caso, preso atto di incongruenze a volte plateali, decidono che per una serie di posizioni va chiesta l’archiviazione anche per l’accusa più grave, quella di far parte di una associazione a delinquere di stampo mafioso.
La seconda, certamente più dolorosa da ammettere, è che l’inchiesta non è affatto morta, il processo è in piedi e va avanti con 70 indagati in libertà per i quali è stato chiesto il processo e 46 già a giudizio a Rebibbia.
Tutti archiviati, tutti innocenti? Non è proprio così, se si ha la pazienza di chinarsi sulle “carte” e fare lo sforzo di leggerle. Prendiamo Nicola Zingaretti, Presidente della Regione Lazio. Il 23 giugno 2015 Salvatore Buzzi, principale protagonista di questa vicenda, lo accusa aver preso parte alla spartizione dei lotti di una gara d’appalto (“gara del calore”) indetta dalla Regione: “Sei lotti dovevano essere assegnati a imprese vicine alla componente politica della maggioranza e uno a quelle vicine all’opposizione”. Buzzi lo aveva saputo da Luca Gramazio (ex consigliere regionale del centrodestra, anche lui sotto processo in primo grado). I magistrati raccolgono la testimonianza di Buzzi, sentono Gramazio (che smentisce) e archiviano. Questa è la motivazione: “La natura de relato di parte delle dichiarazioni di Buzzi, e l’assenza di conferme da parte di Gramazio sono elementi che impongono l’archiviazione”.
Gianni Alemanno. L’accusa più infamante per l’ex ministro ed ex sindaco di Roma, è quella di aver fatto parte di una accolita di mafiosi. Pignatone e i suoi pm, però, verificate carte e testimonianze, chiedono che il reato di associazione mafiosa inizialmente contestato, venga archiviato. E lo mettono nero su bianco con parole che non rappresentano certo un diploma di merito. Eccole: “Pur in presenza di contatti tra l’indagato e gli apicali dell’organizzazione (Buzzi), ed essendo certa la curvatura dell’attività dell’Alemanno nella direzione degli interessi dell’associazione, si deve ritenere che non sussistono elementi idonei a delineare la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato tali da superare le regole di giudizio previste per una condanna in fase dibattimentale, e che il disvalore penale del fatto sia interamente esaurito dalle contestazioni di corruzione e illecito finanziamento pendenti in fase dibattimentale”.
Insomma, allo stato delle cose e con un processo aperto, la Procura è convinta che Alemanno non sia un mafioso, ma un corrotto, un politico che finanziava in modo illecito il suo partito al punto di “curvare la sua attività (di sindaco della Capitale, ndr) nella direzione degli interessi dell’associazione”. Parliamo di soldi, 75mila euro per cene elettorali, 40mila per le esigenze della Fondazione Nuova Italia. Insomma, non proprio bazzecole per un ex primo cittadino.
Ma c’è qualcosa alla base della richiesta di archiviazione dei pm che riguarda Salvatore Buzzi, attore principale di questo film e mente raffinatissima. Il suo passato è la storia di un uomo dai mille volti, bancario irreprensibile, rapinatore ed omicida, infine detenuto modello e protagonista della stagione delle riforme che puntavano alla umanizzazione del carcere. Incantò tutti, parlamentari, giornalisti e intellettuali di sinistra, quel carcerato che si laureò tra le sbarre e creò occasioni di lavoro per gli altri detenuti. Scontò la sua pena e gli offerta la possibilità di crearsi un futuro all’esterno.
Diventò il re della cooperazione sociale e punto di riferimento della politica. Dei partiti, tutti, di destra e di centrosinistra, capì le esigenze riassumibili nella formula denari e posti di lavoro da elargire. Anche nel processo sta giocando, e con abilità, la sua partita. Se si scorrono i verbali dei suoi interrogatori ci si accorge di trovarsi di fronte a un sottile “tragediatore”, nel linguaggio che usano i mafiosi, un simulatore, o un dissimulatore, uno che mette zizzania. Per capire meglio, basta leggere alcune frasi scritte dai pm nella richiesta di archiviazioni: le sue parole talvolta sono state “frutto di notizie raccolte de relato“, oppure “non sono risultate corroborate o suffragabili da idonei riscontri. (…) La sua reticenza su fatti da lui commessi e su alcuni soggetti, incide negativamente sulla sua attendibilità intrinseca”. L’accusa, insomma, nutre dubbi, non si fida fino in fondo di Buzzi e non lo utilizza nel processo come fonte principale, puntando tutto sulle prove raccolte durante l’inchiesta e sull’intero impianto accusatorio.
La mafia non esiste, si continua a ripetere come un mantra. Le accuse della procura sono campate in aria. Nonostante una decisione della VI sezione penale della Cassazione del 5 giugno 2015 che di fronte al ricorso di 17 imputati, confermò l’aggravante di matrice mafiosa per Buzzi e Franco Panzironi, ex amministratore delegato di Ama anche lui a processo. E una sentenza di primo grado con rito abbreviato che riguarda Emilio Gammuto, ex collaboratore della Coop 29 giugno, accusato di corruzione e condannato a cinque anni e quattro mesi di reclusione.
Mafia Capitale, spiegano i giudici nelle motivazioni della sentenza di primo grado, non può essere ridotta ad una “semplice associazione a delinquere”, farlo significa “trascurare lo scenario più ampio e inquietante svelato dalle indagini, dal quale emerge (…) un’alleanza tra un gruppo criminale radicato nel quadrante Nord della Capitale, capitanato da Carminati, e quello imprenditoriale, cresciuto nel mondo cooperativo diretto da Buzzi”. Un gruppo, continuano i giudici, non la procura, “che ha saccheggiato e drenato una quantità ingente di risorse pubbliche, infiltrando la pubblica amministrazione ai massimi livelli”. Per capire, scrivono ancora i giudici, “occorre sganciarsi dalla visione tradizionale della mafia storica, quella che ‘fa i morti’, spara ed insanguina le strade per incutere timore e garantirsi omertà…”.
Infine i demolitori professionali dell’inchiesta hanno tirato in ballo Raffaele Cantone e l’Autorità anticorruzione. Ma a modo loro e con qualche dimenticanza di troppo. Sentito nel corso del processo come testimone, Cantone dichiara di non aver “mai individuato e segnalato alle procure ipotesi di 416 bis (reato di associazione mafiosa, ndr)”, e partono i titoloni. Ovviamente si dimentica che l’Anac non formula ipotesi di reato, che tocca invece alle procure individuare e contestare. Hanno creato meno entusiasmo, invece, le altre frasi di Cantone, queste sì allarmanti davvero, sul fatto che a Roma le irregolarità sugli appalti non sono certo finite con l’inchiesta Mafia Capitale.
Per tanti la mafia a Roma non deve esistere, ma c’è un processo ed è bene che siano le sue conclusioni a stabilire se un’inchiesta ha fatto flop oppure ha avuto successo.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 17 ottobre 2016)