Politica-affari, 60 anni dopo è sempre “Capitale corrotta”

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Anno 1955, al Casinò Municipale di Sanremo, Armando Pizzo e Maria Teresa Ruta presentano il vincitore del Festival della canzone. È Claudio Villa, il reuccio, che con Buongiorno tristezza si aggiudica il primo posto. Al governo c’è Mario Segni, Dc, insieme a Psdi e Pli. A Botteghe Oscure Palmiro Togliatti completa i suoi discorsi con una stilo dall’inchiostro verde. L’11 dicembre il settimanale L’Espresso pubblica quella che è stata giustamente definita “la madre di tutte le inchieste giornalistiche”. “Capitale corrotta=nazione infetta”. Il primo numero del giornale diretto da Arrigo Benedetti è uscito il 2 ottobre e ha già imposto un suo linguaggio. Il direttore affida a un redattore dall’accento toscano una inchiesta su Roma. È Manlio Cancogni, ex partigiano di Giustizia e Libertà, scrittore, intellettuale raffinato e giornalista per caso (la sua vocazione è quella dell’insegnamento). Carattere fumantino, Cancogni chiede un incontro al sindaco dell’epoca, Salvatore Rebecchini, al quinto rifiuto gira i tacchi e va via. Pochi giorni dopo pubblica l’inchiesta. Paginate di fuoco. “Il problema della corruzione edilizia romana è grosso –scrive -. È un problema che interessa tutta l’Italia, perché le condizioni morali della Capitale influenzano fatalmente lo Stato nella sua interezza. È un problema che investe la classe dirigente…”. Cancogni ebbe tanti meriti, fece mille cose nella sua lunga e bella vita, ma mai avrebbe immaginato che quel suo scritto avrebbe avuto la potenza di una profezia. Perché sessant’anni dopo la lue della corruzione che affligge Roma è esattamente la stessa che ammorba l’Italia. La Capitale ha infettato il Paese e viceversa. Quell’impasto di politici corrotti e maneggioni, clientelari, ignoranti e spendaccioni, mafiosi e affaristi, disvelato dall’inchiesta “Mafia Capitale”, è lo stesso che trovi al Nord, al Centro e al Sud del Paese. E senza fastidiose distinzioni di bandiere. Il “se magnamo Roma”, del duo Buzzi-Carminati, lo si può declinare in tanti altri dialetti della Penisola. Cancogni misurava i fallimenti di Rebecchini e della sua amministrazione leggendo i bilanci. “120 miliardi (all’epoca di lire, ndr) di debiti ”, che costano al contribuente romano 10 miliardi di interessi l’anno. “Tutte le aziende autonome, come l’Atac sono diventate passive”. Mai il giovane giornalista de L’Espresso avrebbe immaginato la voragine di debiti nella quale rischia di sprofondare l’Atac (l’azienda dei trasporti della Capitale) sessant’anni dopo quel grido di dolore. Un bilancio che nel 2014 si chiude con 141 milioni di perdite, l’equivalente di 386mila euro al giorno e una gestione che fa piangere lacrime amare agli utenti romani. Ai tempi di Cancogni l’Atac era Aldo Fabrizi simpatico tranviere e bus e tram camminavano. Oggi su 11.804 dipendenti, solo 5900 salgono su un bus per guidarlo. Dei 2300 mezzi a disposizione dell’azienda, 900 sono fermi. Bloccati. Molti rotti, sfasciati, in eterna riparazione. Una volta c’erano le officine, ora c’è l’appalto esterno. L’Anticorruzione ha calcolato che nel solo 2011 è stato affidato a trattativa privata il 99,84% dei servizi esterni. Una pacchia per le clientele politiche. Ma il vero pallino di Cancogni era la speculazione sulle aree fabbricabili della Capitale e il ruolo dell’Immobiliare. La città ancora ferita dalla guerra, aveva fame di case. Trentamila persone nelle baracche, 300 mila, scriveva il giornalista, in crisi per gli affitti troppo cari. Inacasa e Istituto case popolari, non costruivano alloggi popolari. I Piani regolatori si disegnavano sugli interessi delle società di costruzione e sui proprietari dei suoli. Imperava la Società generale Immobiliare, con dentro interessi di Vaticano, Fiat e Italcementi. In quegli anni si compie il miracolo di Vigna Clara, la lievitazione del costo dei terreni da “400 lire a 40 mila al metro quadro”. Così, scriveva Cancogni, “oggi Vigna Clara è un quartiere di lusso”. Sessan t’anni dopo, Vigna Clara è ancora un posto di lusso. Belle e inaccessibili case, vetrine con i marchi alla moda, wine bar, apericena, belle donne e chiacchiere. buzzi-carminatiQui Massimo Carminati, con Salvatore Buzzi, re di Mafia Capitale, aveva il suo quartier generale. In un bar alla moda. Riceveva, dava consigli, parlava con gli ex camerati e ricordava i tempi andati. Le battaglie, le lotte con i rossi. Ferrea la regola: “Qui non facciamo reati”. Quartiere tranquillo. Non lontano, c’è Corso Francia e il distributore dell ’Eni di Roberto Lacopo, altro luogo di incontro di Mafia Capitale. Qui si teorizzavano le linee guida dell’organizzazione. “Nella strada comandiamo noi. E nella strada tu c’avrai sempre bisogno”. Altri tempi, quelli di oggi rispetto agli anni Cinquanta di Cancogni. Ma ieri come oggi c’era chi Roma voleva mangiarsela a morsi. Ieri gerarchie ecclesiastiche e grandi speculatori, oggi affaristi, mafiosi e politici da quattro soldi. Sullo sfondo una città che non ce la fa più. Una Roma senza guida, con un sindaco vittima di se stesso e di una oscura manovra di palazzo. Una città incerta sull’oggi, spaventata dal futuro. E partiti che hanno perso ogni legame con la parte viva della città, quella vera, pronti a piegarsi agli interessi dei sistemi di potere “alti”. “Vogliamo fare un quadro delle speculazioni che il sindaco e il Campidoglio hanno permesso e i n co r a gg i a to ”, spiegava Cancogni ai lettori nell’introdurre la sua inchiesta. “La più grave di tutte – aggiungeva –, chiave di volta dell’intero sistema, è quella sulle aree fabbricabili. La vita dell’intera popolazione ne è compromessa”. Il giornalista sapeva che dietro le speculazioni non c’era solo il malaffare e il profitto di pochi, ma anche la disperazione di tanti. Si disegnava la città, un certo tipo di città, qualcuno, i ceti più forti, si sarebbe arricchito. Molti, i più deboli, avrebbero sofferto. Ieri come oggi. Parole profetiche.

(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 10 dicembre 2015)