Pietro, o’ vesuviano pazzo
C’è chi dice che i “vesuviani” sono tutti pazzi. Sarà l’aria sulfurea che ogni tanto arriva dal vulcano, sarà l’eterna instabilità che regna da queste parti (il Vesuvio incombe e da secoli minaccia sfracelli), ma forse non ha torto chi pensa che la gente che è nata e vive sotto ‘ a muntagna non sta tanto bene di testa. Solo così si può spiegare la scelta di vita di Pietro Parisi. Per dirla in breve: trattasi di uno nato e cresciuto tra Palma Campania e San Gennaro Vesuviano, casa contadina e vita di strada. Occasioni poche, tentazioni tante. Possibilità di sbagliare tantissime. Eppure uno così decide di andar via, di costruirsi una carriera fuori, ci riesce, arriva in cima alla piramide che non ha ancora trent’anni…e che fa? Lascia tutto e ritorna sotto ‘o Vesuvio. Nella sua terra. Un folle.
La sintesi che ho appena fatto della sua vita fa ridere Pietro Parisi, oggi cuoco contadino, ieri allievo prediletto di un grande chef mondiale, Alain Ducasse. “Certo, avevo tutto. Soddisfazioni e soldi. Vivevo negli alberghi a cinque stelle, lavoravo con un maestro che è ritenuto all’unanimità un mito della cucina mondiale. Eppure ad un certo punto ho sentito il richiamo della mia terra. Vedi, nelle settimane passate si è molto polemizzato sulla frase di Rosi Bindi sulla camorra come caratteristica endemica del popolo napoletano e campano. Io voglio dire solo una cosa a tutti: guardate alla ricchezza di questi luoghi, ai saperi contadini e artigiani, a chi ogni giorno si tira su le maniche per portare avanti una azienda, a quelli che campano onestamente con uno stipendio o una pensione da fame. Sono la maggioranza, è per queste persone che sono tornato”. Riepilogando una vita. Pietro nasce a San Gennaro nel 1981 da una famiglia contadina, voglia di studiare poca, la strada e i vicoli del paese lo attirano. A dodici anni deve guadagnarsi il pane e porta il caffè in giro come ragazzo di un bar. In testa un insegnamento paterno. “Devi fartela (frequentare, ndr) col buono e col malamente”. A quattordici decide di andar via, le cucine di un albergo in Svizzera, la prima tappa. Poi la fortuna di volare a Parigi e di essere ammesso nel sancta sanctorum della cucina mondiale di Alaine Ducasse. Venti ristoranti, tra Londra. Parigi, Monaco, 19 stelle Michelin, una divinità per chi aspira a diventare uno chef. “Lo osservavo, ascoltavo le sue lezioni, cercavo di rubargli il mestiere. Il maestro diceva sempre che per cucinare bene bisogna rispondere a tre domande: che cosa ho, cosa so, cosa faccio. Parole che non dimenticherò mai, perché io di cose ne avevo tante. Nelle testa avevo i ricordi delle serate passate con mia nonna, la vedevo ai fornelli intenta a preparare salse e pietanze che avrebbero resuscitato un morto. Nelle narici avevo ancora gli odori di quella cucina povera, fatta di ingredienti modestissimi, roba della terra. Verdure, frutti, ortaggi”. Siamo in macchina, in giro per i paesi che vivono col fiato del Vesuvio sul collo. “La vedi questa terra? E’ nera, ricca, qui cresce di tutto. E tutto può essere buono, naturale”, mi dice mentre passiamo tra campi di nocelle e noci, orti destinati a veder crescere “friarielli” e “mulignane”, pomodori San Marzano e pomodorini del “piennolo”, erba per allevare mucche e bufale. “Una ricchezza che negli anni Ottanta ha rischiato di essere dissolta. C’erano i miliardi della ricostruzione post-sismica e tutti, anche i contadini, volevano diventare appaltatori edili”. Nel frattempo Pietro gira il mondo nelle cucine a cinque stelle. Dubai, Usa, Francia. “Quando venivo al paese a trovare i miei, incontravo i vecchi amici, li vedevo apatici, si lamentavano, sognavano di fuggire e non andavano mai via. Ed era proprio in quei momenti che pensavo di dover fare qualcosa per la mia terra. Così un giorno decisi di mollare tutto. Ne parlai col mio maestro”. Le sue parole le ho stampate nella mente e sulla pelle. Caro Pietro, mi disse Ducasse, io ti ho aperto un mondo e tu ora rinunci a quello che hai costruito in vent’anni. Per cosa, poi, per una terra che non ti dirà mai grazie?”. Terra amara, quella annerita dalle ceneri del Vesuvio. “Tornato al paese, il primo ristorante. Mia sorella e mia madre con me che facevo tutto, cuoco e pure sguattero lavapiatti. Un lavoro durissimo, la gente all’inizio non capiva, ma io insistevo. Andavo dai contadini a prendere le verdure e i pomodori, cercavo i produttori artigianali di conserve, per il latte e i formaggi mi rivolgevo ai piccoli produttori, la pasta la prendevo nei pastifici che rispettavano le regole di una volta. Insomma, costruivo una rete”. Anni di lavoro per arrivare ad “Era ora”, il ristorante-regno di Pietro nella sua Palma Campania. “Non è un luogo esclusivo ed escludente, qui puoi mangiare con venti euro e, se decidi, puoi spenderne anche cento. La qualità è garantita a tutti”. Non c’è il menù, ma un magazine con la storia dei prodotti che il cliente mangerà e le foto di chi li ha forniti. Assunta (segue indirizzo) ha dato i friarielli, Giorgio, le mozzarelle…”Così sono diventato il cuoco contadino, e l’etichetta mi sta proprio bene”.
L’impresa di Parisi e famiglia, la sorella gestisce nel paese accanto, San Gennaro Vesuviano, una salumeria-trattoria (“Le cose buone di Nannina”, dove di mattina, nell’orario scolastico, panino e acqua costano un euro), dà lavoro a cinquanta persone fisse, “ma con gli stagionali, d’estate o per i banchetti, saliamo a cento”. Buono il fatturato, “ma non si tratta solo di soldi, il cibo non deve essere solo un business. Io credo nel valore etico dell’impresa”. Che per il cuoco contadino non è solo una bella teoria. Per questo Pietro ha costruito legami stretti con i detenuti del carcere di Secondigliano, li aiuta a coltivare tre ettari di terreno e ne acquista i prodotti, e con la coop Le Lazzarelle che nel carcere femminile di Pozzuoli produce un ottimo caffè. E poi la divulgazione attraverso i giri nelle ambasciate italiane per promuovere “l’alimentazione sana e combattere truffe e contraffazioni del made in Italy”, e le trasmissioni tv. “Vado volentieri a Mi manda Rai3 dove ho una rubrica sulla cucine dal riuso. Ho imparato dalla mia gente a cucinare con poco, e soprattutto a rispettare il cibo. Ricordo che mia nonna quando era costretta a buttare un pezzo di pane raffermo e inutilizzabile, lo baciava prima. E’ un gesto di grande rispetto, quasi religioso. Cucinare con poco è un’arte”. Già, il poco, uno dei pilastri della tradizione culinaria campana. Cucinare con alimenti “fujut”, nel senso di scappati, assenti, un vorrei ma non posso che ha creato piccoli capolavori come gli spaghetti alle vongole “fujut”, che qualcuno fa risalire addirittura al grande Eduardo De Filippo. “Noi – racconta Pietro – abbiamo inventato la pizza al lievito fujut e abbiamo conquistato i tre spicchi del Gambero Rosso…”. Cucina e impresa, valorizzazione della terra e impegno sociale. Ma alla fine, aveva ragione Ducasse quando rimproverava il giovane Pietro dicendogli che la sua terra non l’avrebbe mai apprezzato? “Non ho rimpianti, so che sto facendo la cosa giusta. Questa non è solo terra dei fuochi, ma è terra di lavoro e di generosità. Ce la possiamo fare”.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano 5 ottobre 2015)
[…] of the «promise of returning» discussed by Agostino Riitano. The buffet was offered by Pietro Parisi, previously a gourmet chef who returned to his native Campania from Paris. Back home, he took to […]
[…] anche il rinfresco finale, a coronamento di due sessioni giornaliere impegnative, preparato da Pietro Parisi. Parisi é infatti un cuoco stellato, ritornato in Campania da Parigi. Nella sua terra natale, egli […]