Sono perduti questi romani
A leggere le carte di mafia capitale 1 e 2, a scorrere i nomi degli uomini del Partito democratico coinvolti, a sentire il racconto delle loro gesta da ladroni pezzenti e senza dignità, sempre con la mano tesa a chiedere soldi, favori, assunzioni, appoggi, ti viene il voltastomaco. Perché quei consiglieri comunali, capigruppo, presidenti di commissioni, avevano in tasca la tessera di un partito che affonda le sue radici nella storia potente e irripetibile di quello che a Roma fu il Partito comunista. Un partito che certo fece errori, che certo cercò alleanze con i costruttori, “calce e martello” era detta la dinastia dei Marchini che al Partito regalò il Cremlino di Botteghe Oscure, ma che mai fu coinvolto in uno scandalo come questo che fa impallidire tutte le Tangentopoli italiane. Forse a Matteo Renzi e al suo ininfluente proconsole romano Matteo Orfini, un dato non è ancora chiaro, o forse entrambi cercano di rimuoverlo per scacciare l’incubo che li tormenta: Roma, la Capitale d’Italia, città simbolo nel mondo, rischia di essere sciolta per mafia. Come l’ultimo paese dell’Aspromonte. Non è certissimo, ma il solo fatto che se ne parli, che qualcuno accenni all’ipotesi, è già un dramma epocale.
E allora, se per vent’anni della tua vita hai conservato in tasca la tessera del Partito comunista, se per anni hai lavorato nei giornali del partito, se ancora oggi, nonostante tutto, a domanda rispondi che sì, sei un uomo di sinistra, ti assale la disperazione. E ti verrebbe voglia di fare come Alberto Sordi-Nando Moriconi, nel film di Steno, salire sul punto più alto del Colosseo, buttare un occhio a Colle Oppio, un altro ai Fori, e urlare. “Cari compagni e care compagne, amici e affini, ma che cazzo avete fatto? Vi rendete conto che avete distrutto tutto?”. E, tra un urlo e una imprecazione, sputare, ché Nando l’amerecano sputava, e il suo era uno sputo liberatorio e di ribellione. Certo, diranno subito quelli che “capiscono” la politica, questa è nostalgia, triste passatismo, il mondo è cambiato, il partito si è modernizzato, è diventato “leggero”….No, fermatevi subito, vi conviene. Perché gli arresti e il baratro che si è spalancato sotto i vostri piedi, vi dicono con chiarezza sul ciglio di quale abisso ci ha portato la vostra “politica moderna”. Uno che ha in tasca la vostra stessa tessera vi ha raccontato cosa siete diventati. E’ Fabrizio Barca, il professore figlio di Luciano (uno di quei dirigenti-intellettuali che costruirono il nuovo Pci). “C’è un Pd cattivo, ma anche pericoloso e dannoso, dove non c’è trasparenza e neppure attività, che lavora per gli eletti anziché per i cittadini, e dove traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di carne da cannone da tesseramento”. Certo, c’è anche un Pd “buono”, fatto di militanti generosi, anziani e ragazzi che ci credono, di chi ricorda ancora da dove viene e onora le radici, e di chi quelle radici le vuole rinnovare, ma è un partito che “subisce inane lo scontro correntizio, le scorribande dei capibastone”. Insomma, la brava gente di Pietralata, dell’Alberone, della Tuscolana, non conta un tubo, non sceglie, non decide. Domina il partito dei Coratti, degli Odevaine, dei Pedretti, e delle loro fameliche corti. I produttori di tessere, i procacciatori di voti alle primarie. A proposito. Quando Massimo Carminati, il nero dei Nar, chiede a Buzzi “come siete messi per le primarie?”, quelle che devono eleggere il nuovo segretario del Pd romano, la risposta è da far gelare il sangue nelle vene. “Stiamo a sostene’ tutti e due…avemo dato centoquaranta voti a Giuntella (Tommaso Giuntella, cuperliano, ndr) e 80 a Cosentino (Lionello Cosentino, Senatore del PD, sostenuto da Goffredo Bettini, eminenza grigia del Pd, ndr)”. Poi Buzzi puntualizza e buona notte alla favoletta delle primarie e della democrazia diretta, dove militanti e iscritti decidono: “Cosentino è proprio amico nostro”. Già, Salvatore Buzzi, in tutta questa vicenda è il personaggio che giganteggia. E’ l’uomo che è riuscito a “magnasse Roma”, c’è riuscito, perché la sua è una intelligenza superiore, uno che svetta rispetto a quelle mezzecalzette innalzate al ruolo di statisti che di fronte a lui si inginocchiavano. Nel 1984 è un ex bancario detenuto, ha meno di trent’anni e sul groppone ha una condanna per omicidio (ha accoltellato un suo complice). Una vita rovinata, ma quelli sono gli anni della legge Gozzini e di una sinistra che vuole riannodare i fili con il mondo carcerario. Buzzi si laurea, studia, approfondisce, il 29 giugno del 1984 nell’inferno di Rebibbia legge una relazione a un convegno sulle condizioni dei detenuti. Applausi e strette di mani importanti, Giuliano Vassalli, allora senatore e presidente della Commissione giustizia, il sindaco Ugo Vetere, Giovanni Galloni. Miriam Mafai è entusiasta quando scrive di lui su “La Repubblica”. “Buzzi mi raccontò la sua storia e mi spiegò come quella iniziativa rappresentasse il riscatto morale della sua vita”, scrive nel suo blog Walter Tocci, senatore del Pd messo ai margini dal “partito cattivo”. “Credo che allora fosse sincero. Poi forse il lato oscuro ha preso il sopravvento. Così una bella favola finisce all’inferno. La coop 29 giugno è nata incontrando la politica che si occupava di solidarietà e cultura, ed è morta nell’abbraccio della politica che si occupa di appalti e preferenze”. Il quartier generale del grande manovratore, quello che “me li so comprati tutti”, è in via Pomona, qui i carabinieri dei Ros hanno registrato buona parte delle malefatte di Buzzi & soci. Chi dice che la storia a volte sa essere puttana non sbaglia. Siamo a Pietralata, “la piccola Russia”, la chiamavano perché il Pci (quello delle radici rinsecchite) era fortissimo. Gente, popolo, lotte per la casa e intellettuali come il regista Luigi Zampa che con “L’onorevole Angelina” (volto bellissimo di Anna Magnani) volle raccontare le gesta di una donna leader delle lotte per il pane. “Lassame perde, nun me fa parlà che me fa male er core. A uno come sto Buzzi Gigi l’avrebbe preso a calci ner culo”. Gigi chi?, chiedo al vecchio militante sopraffatto dallo schifo. Mi guarda male. “Gigi Petroselli er più grande sindaco de Roma”. Già, Petroselli. Il duro, Joe Banana, lo chiamavano per il naso schiacciato e i vestiti da pugile americano, ma anche “l’etrusco” perché veniva da Viterbo. Per i nemici era il grigio burocrate, perché Gigi era cresciuto nel Partito e del Partito era un funzionario, “rivoluzionario di professione”. Quando lo elessero sindaco nel 1979, rivolgendosi al Consiglio comunale disse poche parole. Memorabili: “Signori, il sentimento che ora prevale è di umiltà”. Fu sindaco per 741 giorni (morì il 7 ottobre del 1981 durante una riunione del Comitato centrale del Pci), ma fece cose che lasceranno il segno per anni. Risanamento delle borgate, demolizione dei borghetti, acqua, luce e un bagno a chi non aveva neppure il cesso. Ma anche grandi progetti sui Fori con Antonio Cederna e l’invenzione con quel “pazzo” di Renato Nicolini dell’Estate romana. La gente fuori tutta la notte a godersi il fresco e la cultura nell’Italia degli anni di piombo. Essere il sindaco della Capitale, significava per Gigi Petroselli andare una sera al deposito dell’azienda trasporti a Porta Maggiore. I tramvieri avevano bloccato la città con uno sciopero a oltranza, Petroselli arrivò e gli tirarono le monetine. Gelido, si avvicinò ad un lavoratore e…”Questo non lo permetto, sulla mia onestà non si scherza”. Finì, racconta Pietro Spataro, allora giovane cronista de L’Unità, con gli applausi e i tranvieri che tornarono al lavoro. Lui, Gigi l’etrusco poteva farlo. Perché abitava alla Tuscolana in un appartamento da impiegato, perché vestiva come tutti. “Aò, ma il sindaco porta a mamabù”, fu la frase che disse Alberto Sordi notando che la maglia intima di Petroselli, quella della salute, aveva vinto la sua battaglia contro i polsini della camicia. Si era sul set de “Il Marchese del Grillo”, di Gigi Magni. Sapeva essere dolcissimo (Petroselli scriveva poesie che dedicava alla moglie Aurelia) e durissimo nella scelta dei collaboratori. Altri tempi e altri uomini. Roba da farti impazzire quando leggi le storie di quel tale Figurelli, capo della segreteria di Mirko Coratti, presidente dell’Assemblea Capitolina, che da Buzzi incassa uno stipendio di mille euro al mese e pretende “10mila euro per farci incontrare Coratti”. L’incontro c’è. Stando a quello che dicono i magistrati, fu pure fruttuoso. “Me so comprato Coratti, sta con me, gioca con me”, dice entusiasta Buzzi e contento di aver speso bene i suoi danari. Pure Luca Odevaine, o Odovaine, era diventato braccio destro di Walter Veltroni, e poi di Nicola Zingaretti alla Provincia. L’uomo forte, lo sceriffo capo della Polizia provinciale. Nessuno si era accorto della sua voracità, e neppure di quella storia del cambio del nome per ovviare al fastidio di due condanne (una nell’89 per droga, mitigata dall’indulto e da una riabilitazione, l’altra per una storiaccia di assegni a vuoto), né Veltroni, meno che mai Zingaretti, e neppure Viminale e Prefettura. “Io una volta nella vita vorrei quantomeno non regalare le cose insomma, almeno io da questa roba qua, almeno ce vorrei guadagnà uno stipendio pure pe me, quantomeno. Se proprio poi dopo la cosa ha preso altri sviluppi, c’è una parte che all’inizio appunto erano 5 mila Euro, poi so diventati 10 mila, dopodiché avevamo fatto un ragionamento su Roma…”. Parlava così Odevaine dell’affare immigrati. Veltroni ci potrebbe girare un film su questa storia. Braccio destro di Petroselli era Amato Mattia, veniva dall’Irpinia e la sera del 1980 che il terremoto distrusse Caposele, il suo paese, si fiondò giù. Per settimane non si fece sentire e Petroselli, preoccupato, mandò un motociclista a cercarlo. Temeva che quel “pazzo” decidesse di lasciare tutto e rimanere in quel buco del Sud distrutto dall’ennesimo terremoto. Mattia a Roma era un uomo potente, ma Petroselli aveva ragione, perché dopo la sua morte “il pazzo” mollò davvero tutto e andò dalle sue parti a fare il dirigente del Pci. Casa in periferia, offerta da “un compagno”, e stipendio pagato dal Partito, 500mila lire al mese, quando arrivavano, come un operaio specializzato. Questa era la regola. Si viveva di illusioni, certo, ma si campava con poco. Ora è il tempo dei Daniele Ozzimo, le carte dicono che prendeva uno stipendio mensile da Buzzi (anche se non quantificato) e 20mila euro di contributi elettorali. Sua moglie, Micaela Campana, deputata e responsabile nazionale welfare per il Pd, mandava degli sms davvero carini a Buzzi. “Ciao grande capo”. L’onorevole ha smentito indignata e minacciato querele, suo marito si difende, Odevaine, e tutti gli altri , sono innocenti fino al terzo grado, ci mancherebbe. Innocente immacolato è Pierpaolo Pedetti, consigliere comunale del Pd e presidente della Commissione lo hanno arrestato alle cinque del mattino. Anche lui favoriva il business di Buzzi, ma sull’emergenza abitativa. Ecco cosa pensa di lui la compagna del grande manovratore: “Questo quando stava in Sinistra giovanile con me faceva tanto quello dei grandi valori, poi oggi lui se piglia i soldi, fa ste cose. Ma vaffanculo”. Innocentissimo è Francesco D’Ausilio, ex capogruppo del Pd in Campidoglio, uomo di Goffredo Bettini. Il capo della sua segreteria è indagato nell’affaire Buzzi, il suo nome citato più volte nelle intercettazioni, e lui, intervistato da Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera, replica impacciato…”sono persone che parlano di me, non sono neppure indagato, non mi hanno perquisito”. “So tutti corrotti e me li compro tutti”, urlava ai quattro venti, soddisfatto, Salvatore Buzzi. Che quando gli girava gli girava. “A testa di cazzo, dove sei che te spacco il c…indegno”. Fu questo il tono di una telefonata con Andrea Carlini, membro del cda dell’Atac fino al 2013 e altissimo dirigente regionale del Pd. Ma i due, grazie all’intercessione di Massimo Carminati, fanno la pace. Un idillio di sms. “Io non sono tuo nemico”, scrive Carlini. “Neppure io”, replica Buzzi. Nelle carte di mafia capitale si parla dell’acquisto di un appartamento che l’alto dirigente avrebbe chiesto a Buzzi. Un cadeau.
E’ la politica degli anni Duemila all’ombra del Cupolone ma anche oltre. I partiti senza storia né radici, i comitati elettorali degli eletti, le primarie e i comitati d’affari. “Ce semo magnati Roma”, gridato a squarciagola a cena “Dar Bruttone” dopo l’ennesimo bicchiere di “romanella”. Petroselli è solo il nome di una strada e di qualche scuola media. Basta! Tocca scendere dal Colosseo e mandare a casa Nando Moriconi detto Nando l’amerecano. Inutile urlare, questi non sentono, se ne fottono. Vanno diritti verso l’abisso.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano 8 giugno 2015)