Ventimila
Segnatevi questo numero: ventimila. E tenetelo a mente, perché ventimila sono le persone morte negli ultimi vent’anni in quel tratto di Mediterraneo che chiamiamo Canale di Sicilia. Ancoriamoci a numeri e statistiche per ricordare che solo dal 2002 al 2013 le vittime sono state 6700, il picco si è raggiunto nel 2011, anno delle primavere arabe, con 2352 uomini, donne e bambini finiti in fondo al mare.
Questo hanno di bello i numeri e le statistiche, la freddezza, leggi un dato e passi oltre, ma dietro quei numeri si nasconde una ecatombe senza fine che l’Europa si rifiuta di affrontare. C’è un pezzo di mondo scosso da guerre e tensioni che vuole solo fuggire e trovare un po’ di speranza altrove. Una umanità in movimento, ferita e disposta ad affrontare quel tratto di mare che li divide dalla ricerca di un tetto e di un pezzo di pane, nelle peggiori condizioni. Si consegnano a scafisti senza scrupoli, terminali di organizzazioni criminali potenti e agguerrite, avendo una sola certezza, quella di partire. L’arrivo è nelle mani di dio. Ancora numeri, ancora statistiche, fornite dall’Alto commissario Onu per i rifugiati: i migranti morti su barconi affondati nel Mediterraneo nei primi due mesi e mezzo del 2015, sono più di 400. Tanti partono, molti non arrivano, perché su 100 migranti che si imbarcano su gommoni stracarichi, pescherecci che cadono a pezzi, barconi dai legni fradici, 5 muoiono affogati. Questa volta, però, la statistica ci aiuta a capire cosa sta succedendo e soprattutto a prevedere quello che potrà succedere da qui a poco. Perché la percentuale dei migranti morti è raddoppiata rispetto all’anno precedente. Nel 2014 su 100 disgraziati che salpavano dalle coste libiche o tunisine, “solo” due finivano travolti dalle onde o uccisi dal freddo, questo vuol dire due cose, la prima è che la quantità di persone disposte a tutto pur di raggiungere l’Europa è in nettissimo aumento, la seconda è che le organizzazioni del traffico di esseri umani si sono fatte più spietate. Le imbarcazioni usate sono sempre più precarie, le vite dei migranti contano sempre di meno. E c’è un’altra novità rispetto al passato, il capo di un clan libico che gestisce un pezzo dell’immigrazione clandestina mette nel conto che dovrà perdere il gommone o il peschereccio usato per la traversata, ma non può privarsi dello scafista. Per questa ragione negli ultimi mesi stiamo assistendo al fenomeno del “capitano”, l’uomo che manovra l’imbarcazione, che ad un certo punto del tragitto abbandona la barca con un gommone di appoggio. Il timone è affidato ad uno dei migranti che viene dotato anche di un telefono satellitare per lanciare l’S.o.s alla Marina italiana.
Ventimila morti, quasi una città intera, una sorta di Atlantide degli anni Duemila che riposa in fondo al Mediterraneo. Chi sono? Giovani, soprattutto, carne fresca che vuole vivere, ragazzi stanchi di guerre e carestie, fame e violenza, gente che rischia tutto il poco che ha per conquistarsi almeno il diritto alla speranza. E donne, molte tengono in braccio i loro figli nelle gelide notti della traversata, quando l’orizzonte è una linea nera e la terra è troppo lontana. Altre i figli li portano nel grembo. Tutti hanno attraversato deserti messi come bestie sui camion, prima di essere imbarcati sono stati rinchiusi in luridi capannoni alla periferia delle “tortughe” libiche di Al Zuwarah, Misurata, Zilten, Tripoli, i porti libici nelle mani dei pirati e più vicini alla Sicilia. Molti sono stati derubati, stuprati, chi ha osato ribellarsi è stato ucciso. I più “fortunati” sono stati stipati come merce di scarto su pescherecci che a mala pena possono trasportare un equipaggio di dieci persone. Uno sull’altro, in ogni centimetro della barca. Nella stiva che una volta imbarcava il pesce pescato, nel vano motore, sul ponte. La barca dell’ultima tragedia, era lunga 30 metri, gli scafisti erano riusciti a farci stare 700 disperati: ogni metro 23 persone virgola qualcosa. Sembra un calcolo sballato, ma l’esperienza di tanti anni di sbarchi, il racconto di traversate impossibili fatto dai disperati salvati, ci dice che è vero, che è proprio così, che altre volte è stato anche peggio. Queste cose l’Europa le sa, l’inferno dell’immigrazione clandestina è noto anche ai politici italiani che affollano i talk-show e vomitano parole di odio. Soprattutto loro hanno voluto la fine dell’operazione Mare Nostrum e la sua sostituzione con Triton. Non sono solo due sigle, ma due strategie diverse. Con Mare Nostrum l’obiettivo principale era tutelare le vite in mare, spingersi a ridosso delle coste libiche per evitare tragedie come quella di queste ore. C’erano elicotteri, corvette, vedette di altura e una nave ospedale, ma costava troppo, 9,5 milioni di euro al mese, blateravano politici senza anima nelle tv. L’operazione è durata dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre di quello stesso anno, 160mila le persone salvate, 366 gli scafisti arrestati. Poi l’Europa ha voluto Ttriton, compito principale salvaguardare le frontiere, costa di meno, 2,9 milioni al mese, e le navi si tengono lontane dalla Libia. Sì, perché il problema degli stati europei è tutelare le frontiere, per questo dal 2008 al 2013 l’Europa ha speso 1 miliardo e 820mila euro, il triplo, calcola l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, dei fondi stanziati per l’accoglienza dei migranti, 630milioni. Ma questo, i 700 morti del Canale di Sicilia, non lo sapevano
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 21 aprile 2015)