Il CIE delle fughe

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(di Marco Bova)

Sono cambiati i governi ed è cambiato l’intero scenario politico, ma i Cie sono sempre lì. Fermi, immobili e imponenti. Ai margini delle città e lontani dall’interesse quotidiano. Delle vere e proprie cattedrali nel deserto che hanno attraversato indenni un dibattito decennale caratterizzato dalle argomentazioni più autorevoli in campo d’immigrazione, ma i Cie sono sempre lì. Sono l’acronimo di centri di identificazione ed espulsione. Lì vengono rinchiusi i migranti colpiti da un provvedimento d’espulsione e fino ad oggi è possibile trattenerli fino a 18 mesi. Di Cie si parla sempre meno, ma nel silenzio assordante dei media mainstream nei prossimi giorni dovrebbe entrare in discussione al Senato un disegno di legge in grado di riaprire un dibattito critico sul tema attraverso una prima riduzione sul limite massimo di trattenimento: da 18 a 6 mesi.
La giurisdizione sui Cie, così come tutte le tipologie di centri dedicate all’accoglienza dei migranti, è affidata al Ministero dell’Interno che agisce attraverso le Prefetture locali. All’interno dei centri operano gli agenti di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza oltre ai militari dell’esercito, ed è seguito da vicino dai responsabili del Dipartimento per le libertà civili e immigrazione. Fino agli inizi del 2014 gli accordi di gestione triennale – affidati ad enti gestori privati – sono stati assegnati con un criterio al ribasso rispetto alla base d’asta di 30 euro per ospite, a causa della spending review. Adesso, a partire dalla pubblicazione del bando di gestione per il Cie di Milano, è prevista una base d’asta di 40 euro. Anche nel nuovo schema, tuttavia, permane la possibilità di subappaltare alcuni servizi come quello della mensa, del servizio legale o ad esempio la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti prodotti all’interno del centro. Un sistema liquido, tale da far scrivere nel 2003 alla Corte dei Conti di come si sia rilevata “estremamente difficile la ricostruzione della spesa sostenuta” per i Cie.
Nell’ultimo anno, molti dei 13 centri attivi, sono stati chiusi per ristrutturazioni, ma adesso in un silenzio assordante il Ministero dell’Interno ne sta disponendo la riapertura. A settembre dovrebbe riaprire il Cie di Milano (Via Corelli), a breve – nonostante le numerose posizioni contrarie – riaprirà quello di Gorizia (Gradisca d’Isonzo) e con tutta certezza riaprirà anche quello di Brindisi sito in contrada Restinco. Per ques’ultimo è già partita la gara d’appalto che ne affiderà la gestione, mentre per quello di Milano ad aggiudicarsi la concessione per i prossimi tre anni è stata la francese Gepsa, controllata dal colosso del gas Gdf Suez, che in Francia si occupa delle carceri statali. A Gradisca d’Isonzo invece la gestione continuerà ad essere nelle mani di Connecting People. Infatti, nonostante sia già iniziato il processo penale nei confronti del colosso dell’accoglienza trapanese e dei suoi amministratori – oltre che del vice prefetto di Gorizia Gloria Allegretto e di numerosi funzionari – per associazione a delinquere ai fini della truffa circa la gestione dei fondi destinati agli ospiti, nessuno ha ancora sollevato dei criteri di inopportunità su tale questione. Poi c’è la questione Trapani, l’unica città ad aver avuto due Cie: il Vulpitta e quello di contrada Milo. Il primo – che nel 1999 vide la morte di 6 persone – non dovrebbe essere riaperto mentre il secondo, in barba a quanto anticipato dal locale prefetto, non ha mai chiuso i battenti e gli “ospiti” – anche in questi giorni – continuano a credere che esista una sola soluzione: la fuga.
Ad arricchire il dibattito critico sulla questione poi ci sono i numeri che, inesorabili, bocciano a 360 gradi i Cie. Si tratta di numeri riconducibili alla percentuale di espulsioni e alle spese sostenute dallo Stato nel corso degli anni. Infine proprio in questi giorni, grazie all’arresto di uno dei componenti della Commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato di Trapani (competente anche sulle province di Agrigento e Palermo), sono emersi i numerosi bug che si nascondono nel sistema di riconoscimento del diritto di asilo. Buchi neri, come la consueta esaminazione dei richiedenti asilo attraverso un solo membro anziché in sede collegiale, che hanno mostrato ulteriormente la vulnerabilità di un sistema in frantumi.
(pubblicato su fai notizia.it)