L’altra Scampia ora piange per Ciro: “Un eroe normale”

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Ciro torna a casa in una bara e la gente applaude. Le donne urlano il suo nome in lacrime come si fa con gli eroi morti giovani, i bambini guardano attoniti, i vecchi si segnano. E Scampia, da patria di Gomorra, quartiere diventato il cratere di tutti i mali che affliggono Napoli e l’Italia intera, si aggrappa a quella bara coperta di fiori bianchi per mostrarsi finalmente al mondo con un altro volto. Quello sorridente di Ciro Esposito, anni 29, di professione lavamacchine in proprio, figlio di un portantino d’ospedale e di una casalinga che arrotondava le entrate di famiglia facendo siringhe a domicilio, fratello di Pasquale e Michele, lavamacchine pure loro, fidanzato con Simona, ragazza di Soccavo, commessa a quattro soldi in un negozio di abbigliamento. UNA FAMIGLIA di gente onesta e perbene, quella di Ciro, che il giornale della sua città, Il Mattino, ha omaggiato del titolo di “galantuomo di Scampia”. E allora il dolore per questo ragazzo morto per una partita di pallone, sparato alle spalle da un ultrà romanista che masturbava la sua mente malata con i simboli di puzzolenti vessilli fascisti e girava armato nonostante inutili diffide della questura, è da lutto cittadino. Migliaia di persone da ore aspettano l’arrivo della bara da Roma, due ali lunghissime di folla davanti all’ingresso dell’Auditorium. C’è il gonfalone del Comune listato a lutto, il sindaco Luigi de Magistris, gli assessori, il presidente della Municipalità Angelo Pisani, ma soprattutto c’è la gente del quartiere. Quella che non appare mai sui giornali, che fa poco colore e ancor meno notizia. Sono quelli come Ciro e la sua famiglia, quelli che per vivere si arrangiano. Piccoli lavori, malpagati, conti da far quadrare ogni mese, case popolari troppo strette per famiglie sempre numerose, l’occhio attento al carrello della spesa, l’incubo di cartelle esattoriali e bollette. Sono “gli altri” di questo posto dove la disoccupazione supera il 50 per cento, sono quelli schiacciati dalla camorra, dal suo potere e dalle sue ricchezze, e dall’indifferenza della politica. Che predica, analizza, si divide, parla, ma da decenni non offre soluzioni. Questo è Sud più Sud del resto, questa è periferia metropolitana, qui non ci sono placidi paesi e Appennini da celebrare, queste sono italiche banlieu dimenticate da dio e dagli uomini. Si innesta qui l’anomalia di Ciro e della sua famiglia, quella ostinazione a vivere onestamente. A tutti i costi e nonostante tutto. Per questo Scampia si riconosce nel “suo eroe”, parola che campeggia su manifesti e striscioni. A pochi passi dalla camera ardente, la palestra di Gianni Maddaloni, un altro che resiste. E uno striscione: “Ciro con te va via la parte sana di Scampia”. Gianni porta i suoi ragazzi in divisa da judo a rendere omaggio alla salma di Ciro. “Lui non era un violento – ci dice – era un ragazzo onesto, amava lo sport”. “VOI VOLETE sapere chi era Ciro? Uno normale, e già questo a Scampia è una rivoluzione. Tutti qui portano i tatuaggi, lui no, non ne aveva neppure uno, non gli piacevano”. È il racconto di un amico. Un altro ci riporta come si fa nelle favole che raccontano le gesta degli eroi, le parole dette da Ciro in uno dei rari sprazzi di lucidità che lo hanno illuminato nei suoi 53 giorni di calvario. “Ma come hanno sparato proprio a me, a un fesso come me?”. Laddove per fesso sta il non essersi mai immischiato nel tifo violento, meno che mai negli atteggiamenti che tra Vele e Case dei puffi sono la regola a Scampia. Il posto dove per qualificare chi non appartiene al “sistema”, vale a dire chi non svolge un ruolo, sia pure di bassissimo livello, nella catena produttiva della camorra, è etichettato come “nisciuno”. Nessuno. Ciro e la sua famiglia erano “nisciuno”. Gente onesta. Enzo Esposito è lo zio, un passato da sindacalista della Fiom, per settimane è stato il portavoce della famiglia. Ora, di fronte al feretro del nipote crolla. Piange urlando. Antonella Leardi è la madre di Ciro. Gli occhi fissi sulla bara del figlio, sembra scomparire sulla sedia dove si è accasciata. Artemio è un bambino di 11 anni, in braccio ha un peluche grande, è un “ciuccio” azzurro, il simbolo del Napoli. Lo mette sulla bara, così altri tifosi lasciano sciarpe della squadra. Intorno tante corone di fiori, tutte bianche. C’è quella dei tifosi del Borussia, che oggi saranno presenti con una delegazione ai funerali, quella di tanti club, e una della famiglia Speziali, l’ultrà del Catania calcio in galera per l’assassinio dell’ispettore Filippo Raciti. È il gioco del pallone con le sue violenze assurde. Quelle che la mamma di Ciro, in questi 53 giorni di agonia del figlio, ha contrastato con il suo corpo esile. Lo ha detto in tutte le lingue: nessuna violenza in nome di mio figlio. Basta morti.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 27 giugno 2014)