Roberto Mancini:vittima del dovere

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L’onore di un poliziotto e il disonore dello Stato. Il coraggio di una famiglia che ha visto l’unico suo pilastro distrutto da un tumore e la pavidità di un Paese avaro con i suoi uomini migliori. C’era tutto questo ai funerali di Roberto Mancini, il vicecommissario di polizia che per primo ha indagato sulla Terra dei Fuochi. Per questo suo lavoro, Roberto è morto, ucciso da un linfoma. La Repubblica italiana, rappresentata dal viceministro Filippo Bubbico, non ha voluto riconoscere i funerali di Stato, si è limitata al picchetto d’onore delle esequie solenni, ma la gente della Campania avvelenata è venuta insieme a don Maurizio Patriciello, il suo parroco per rendere omaggio a un eroe. Sono nella basilica di San Lorenzo fuori le mura, a Roma, insieme ai colleghi di Roberto, poliziotti dai capelli ingrigiti, in divisa o in jeans e giubbotti alla Serpico. E’ quella leva arrivata in polizia alla fine degli anni Settanta dalle università e dalla società civile, i poliziotti “democratici”, li chiamavano. Roberto è “Robé”, nelle parole dell’omelia di don Patriciello. “Tu sei stato il primo a capire – dice il prete – e hai scritto dossier e informative che sono rimaste dormienti. Perché? Cosa si vuole coprire? Robé qui ci sono le mamme della Terra dei Fuochi, hanno i figli uccisi dal tumore, passati direttamente dal seno materno all’inferno della chemioterapia. Robé tu sei stato isolato, come Michele Liguori, il vigile di Acerra. Anche lui aveva capito tutto sul business dei rifiuti e anche lui è stato ucciso dal tumore”. Momento tesissimo quando parla un poliziotto amico di Mancini. La Basilica ammutolisce, il capo della Polizia Alessandro Pansa è in prima fila insieme al viceministro. “Roberto Mancini era un vero uomo libero. Lavorava all’Ucigos e dei benpensanti lo trasferirono a Spoleto perché fu scoperto a leggere un giornale eversivo, il Manifesto. Vinse il concorso da ispettore e tornò a Roma, ha lavorato come un pazzo in quella commissione d’inchiesta sui rifiuti perché voleva stare dalla parte dei deboli”. Poi la parte più
dura del discorso rivolta direttamente a Pansa: “Signor Capo della Polizia, se vuole davvero essere accettato in tutto come nostro capo si attivi per riconoscere a Roberto lo status di vittima del dovere e chiarisca chi gli ha impedito di entrare in qualsiasi struttura investigativa facendolo finire in un commissariato di frontiera”. Parla Monika, la moglie del vicecommissario e si rivolge alle mamme venute dalla Campania: “Continuate a combattere per la Terra dei fuochi”. E la figlia, tredici anni e una dignità sconfinata: “Papà era un eroe, aveva tanti nemici? Vuol dire che ha combattuto per qualcosa nella sua vita”. Suona il silenzio di ordinanza, le sciabole dei poliziotti si alzano al cielo. Roberto, dicono i colleghi, la mattina faceva la chemio e il pomeriggio era per strada, al lavoro. “Doveva mantenere la famiglia”. La vergogna dello Stato è scritta su un documento della Camera del 13 luglio 2013, dove si nega “una qualsiasi responsabilità risarcitoria”. Perché “la collaborazione del sig. Mancini con la Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, non può in alcun modo inquadrarsi in un rapporto di lavoro con l’organo competente”.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 4 maggio 2014)