Viminale abbandonato. Alfano pensa a fare campagna elettorale
Tira una brutta aria al Viminale, il palazzo voluto da Giolitti è un regno senza re. Angelino Alfano, il ministro, si fa vedere sempre di meno. C’è il suo minuscolo partito, l’Ncd, che rischia di sfuggirgli di mano. Troppe manovre, e soprattutto troppi mal di pancia tra senatori e deputati per l’appiattimento sul governo Renzi e la composizione delle liste per le europee. “Quando il ministro è debole – dicono le voci di dentro del ministero dell’Interno – dominano gli alti vertici delle burocrazie. È stato sempre così. Ognuno cerca di conquistare spazi”. Chi conosce i misteri del palazzo ci invita a riflettere su quanto sta accadendo dal 12 aprile in poi. È il sabato nero di Roma, la Capitale è attraversata da un corteo di senzacasa, disoccupati, precari, immigrati impiccati al rinnovo del permesso di soggiorno, insomma, quella ampia marginalità sociale che non vedrà neppure le briciole della timida ripresa economica. Otto-diecimila persone, non proprio una manifestazione oceanica. Ma è la prima protesta di piazza dell’era Renzi. La gestione dell’ordine pubblico è disastrosa, inspiegabilmente i manifestanti vengono fatti salire per via Veneto fino a lambire il ministero del Welfare. Lo scontro a quel punto diventa inevitabile. Dentro il corteo ci sono gruppi organizzati militarmente e sono ben visibili. Si potevano fermare prima? Certo, se ci fosse stata una adeguata opera di intelligence e di prevenzione. Così non è stato e i poliziotti sono stati lasciati soli a scontrarsi con questi segmenti aggressivi. Quello che è successo è noto, fino alle immagini del poliziotto che calpesta una ragazza bloccata con la faccia schiacciata sull’asfalto. Ma da questo momento in poi si apre un altro scenario. ALESSANDRO PANSA, il Capo della Polizia, trancia un giudizio netto: “Abbiamo avuto un cretino che dobbiamo identificare e va sanzionato perché ha preso a calci una ragazza”. Pansa tenta così di chiudere le polemiche e gli attacchi alla Polizia. Il ragionamento è semplice: Roma non è stata devastata, gli incidenti sono stati violenti ma circoscritti, i poliziotti hanno assicurato l’ordine e questo loro sacrificio non può essere inquinato dal gesto sconsiderato di un singolo agente. Il capo della Polizia viene dalla scuola del suo sfortunato predecessore, Antonio Manganelli, il quale invitava governo e partiti a non scaricare mai sulla Polizia le tensioni sociali. Ma Pansa aveva fatto i conti senza l’oste delle lotte interne al Viminale. Perché a smentirlo, pochi giorni dopo, interviene il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro. L’agente calpestatore un cretino? “No – è la replica – il suo atteggiamento è apparentemente inspiegabile”. Tutto qui. È un gioco delle parti, con i sindacati di polizia, soprattutto quelli orientati a destra, che si schierano in una difesa acritica dell’operato di “tutti” i poliziotti e contro la proposta di un codice identificativo per i loro colleghi impegnati in operazioni di ordine pubblico. La questione è complessa e antica, risale al G8 di Genova, e al Viminale qualcuno ci sta pensando. Ma Pecoraro, che coltiva buoni rapporti con le sigle di destra del sindacalismo, si schiera subito pronunciando un quasi sì che è più vicino a un no secco. “Con – temporaneamente si introducano norme per regolamentare il diritto costituzionale a manifestare”. Non è una battaglia tra diverse “filosofie” di gestione dell’ordine pubblico quella che si sta combattendo, in ballo c’è altro. Pecoraro è l’uomo che Alfano e il centrodestra volevano alla guida della Polizia dopo la scomparsa di Antonio Manganelli. Il Pd e l’allora primo ministro Enrico Letta puntavano invece su Franco Gabrielli, ex Capo del Sisde e numero uno della Protezione civile. Alla fine, il braccio di ferro fu vinto dal Quirinale che impose Alessandro Pansa, un passato allo Sco accanto a Manganelli e Gianni De Gennaro e una carriera da prefetto in città importanti. Un confronto aspro tra due pezzi importanti della gerarchia del Viminale che certamente non è utile in un periodo di forti tensioni sociali. A gettare benzina sul fuoco l’incauto Alfano che cancella ogni apertura sul codice identificativo e minaccia di chiudere il centro storico di Roma a tutte le manifestazioni. Il ministro brandisce le foto dei manifestanti violenti e le mostra a favor di telecamera, e lo fa in una sede che non è quella istituzionale, ma una sala del congresso del suo partito. Tv e fotografi lo riprendono con le foto in mano e lo sfondo dei simboli del Ncd. Un atteggiamento da capopartito più che da ministro dell’Interno, che neppure Antonio Gava, ministro negli anni più bui della Prima Repubblica, si era spinto a concepire. La base della polizia è a disagio per gli stipendi troppo bassi e i concorsi bloccati (l’età media di un agente in piazza è di 39 anni), le tensioni sociali aumentano, il ministro si occupa del suo minuscolo partito.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 23 aprile 2014)