Scopelliti, Alfano e Reggio Calabria ancora commissariata

Il tumore che divora Reggio Calabria non è stato estirpato. La mafia comanda ancora in città, ha suoi uomini nelle istituzioni, un consenso altissimo, per questo l’opera chirurgica avviata il 9 ottobre di un anno fa con lo scioglimento per infiltrazioni mafiose del Comune, deve continuare. Lo hanno annunciato i commissari mandati dal Viminale a governare la Città dello Stretto ed è successo l’inferno. “Chiederemo la proroga di altri sei mesi del commissariamento – ha detto il prefetto Gaetano Chiusolo – perché bisogna ricostruire il rapporto di fiducia con i cittadini, un rapporto che è stato spezzato e tradito dall’inerzia, dalle connivenze, da scelte poco chiare e interessi di parte”.Uno schiaffo in faccia a Peppe Scopelliti, il governatore della Calabria, l’ex padrone del Pdl e dei pacchetti di voti portati a centinaia di migliaia a Silvio Berlusconi, transitato con una nutrita pattuglia di deputati, senatori e consiglieri regionali, alla corte di Angelino Alfano. L’uomo che da segretario nazionale del Pdl vergò una indignata prefazione a “La democrazia sospesa”, il libretto con il quale Scopelliti e i suoi protestarono contro Annamaria Cancellieri, allora ministro dell’Interno, che aveva osato l’inosabile. E adesso? Adesso Angelino, che del Viminale è il numero uno, non fa quello che tutti si aspettavano facesse: finirla qui con il commissariamento, fissare la data delle elezioni e restituire il Comune a Scopelliti & soci. Non è andata così, qualcosa non ha funzionato. “La verità è che Alfano – si sfoga un ex consigliere comunale mandato a casa – non comanda una minchia al Ministero”. Eppure segnali chiari da Reggio ne avevano mandati. Demetrio Arena, Demi, il sindaco sciolto per mafia, dichiarato incandidabile, lo hanno prima candidato al Senato, poi nominato assessore regionale alle attività produttive. E ne mandano ancora. In città nei giorni scorsi è arrivata la Commissione parlamentare antimafia e Scopelliti e i suoi hanno scatenato l’inferno. “E’ una parata inutile, la ‘ndrangheta cercatela al Nord. Conosco Demetrio Arena, ha un profilo morale irraggiungibile per tutti i rappresentanti del Pd che fanno capo a Rosi Bindi messi assieme”, ha urlato in una conferenza stampa dove ha randellato anche i giornalisti. “Avete riempito le pagine di cazzate”. E’ nervoso l’ex missino adoratore di Ciccio Franco, il leader dei Boia chi molla della rivolta di Reggio, al quale, nell’anno primo della sua era di sindaco, dedicò finanche un monumento sul Lungomare. Di giravolte ne ha fatte tante, ma non sono bastate. Nell’era del berlusconismo passò da “eia eia alalà” alla disco music suonata a tutto volume nelle serate estive in città, dove primeggiavano Lele Mora e la sua scuderia con Valeria Marini in testa. Era la Reggio da bere, il modello, travolto da spese folli, buchi milionari, e dall’ombra pesante di Orsola Fallara, la responsabile delle finanze del Comune, fedelissima di Scopelliti, vittima di un suicidio misterioso. “La città è ancora dolente”, mi dice Aldo Varano, che intitolò così un suo fortunatissimo libro sulla Reggio sconvolta da tangentopoli. “Siamo alla conclusione di un processo che viene da lontano e affonda le sue radici nel sistema di potere costruito da Scopelliti e dal centrodestra con la totale inerzia dell’opposizione di centrosinistra”. Reggio irredimibile, lo capisci andando al negozio di sanitaria e articoli per bambini di Tiberio Bentivoglio. C’è una macchina della Polizia a controllare che la ‘ndrangheta non tenti di ammazzarlo di nuovo. “Mi hanno sparato e mi sono salvato per caso – ci racconta -, poi ho denunciato i miei estorsori. In questo quartiere c’è un boss che comanda, ma ci sono i politici che andavano a chiedergli i voti. Io combatto, ma lo Stato non c’è ancora”. Bentivoglio fatturava fino a 2 miliardi di vecchie lire, “sotto Natale c’era la fila dei clienti”. Ora di mamme nel negozio che guardano ma non comprano, ne contiamo solo tre. “Se in questa città non ci fossero i medici, gli avvocati, gli architetti e gli ingegneri, sarebbe un paradiso”, Varano scherza, ma ci fa capire cos’è la borghesia mafiosa. Il cancro della città, perché qui il potere non vive nelle istituzioni o nelle sedi dei partiti, i luoghi dove si decidono spartizioni di appalti e fortune individuali sono i salotti dove si riuniscono i “fratelli massoni”. Lo chiamano il “tavolino”, dove siedono politici, imprenditori e boss della ‘ndrangheta imprenditrice e metropolitana. Tutto è perduto in riva allo Stretto? Forse no, basta andare di sera nella parrocchia di Giovanni Ladiana, prete gesuita con un passato di bracciante agricolo e muratore. Nelle stanze dove una volta si studiava il catechismo ci sono medici volontari che fanno ecografie, avvocati che assistono immigrati e poveri, un banco alimentare e tre giovanissimi dentisti. “Veniamo tre giorni alla settimana a fare volontariato. Qualcuno va in Africa, noi siamo qui con pochi mezzi a curare chi non ha i soldi per farlo”. Il prete è animatore di “Reggio non tace”, una associazione che dà del filo da torcere a tutti, mafiosi e politici. “Non ci siamo, non possiamo ammettere che ci siano le solite facce di uomini politici delle passate amministrazioni e che magari occupano poltrone più prestigiose”, dicono annunciando una loro assemblea pubblica. C’è una città che non si rassegna. Al Liceo Campanella, il più antico della città, i ragazzi ascoltano l’arcivescovo monsignor Morosini. “La potenza dello Stato verrà esaltata quando lo Stato offrirà lavoro”. I ragazzi si guardano negli occhi, qualcuno spera, altri sanno che il futuro non è qui, che bisogna cercalo lontano dallo Stretto. E per sempre.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 13 dicembre 2013)