Le Madonne dell’antimafia
Ha ragione Nicola Gratteri, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, quando sbatte i pugni sul tavolo e dice “basta con chi fa dell’antimafia un mestiere. Basta con l’antimafia delle parole. Basta con questi comportamenti eticamente riprovevoli”. Basta, perché nella Calabria irredimibile anche l’antimafia è diventata una cosa sporca, vomitevole, un affare come tanti, un modo per fare soldi, inseguire il successo, ottenere poltrone e seggi, andare in televisione e trasformarsi da nullità sociali in icone. L’ultima notizia è quella dell’arresto di Rosy Canale. Rosy la vittima ferita dai suoi carnefici che volevano spacciare droga nel suo locale. Rosy che va in America per curarsi ma poi torna nel 2007 dopo la strage di Duisburg. E scopre la lotta alla ‘ndrangheta. Va a San Luca e organizza le donne. Va in tv nei talk show del pomeriggio, nei tg della sera, viene venerata come una Madonna pellegrina. Scrive un monologo teatrale e commuove tutti, anche Battiato che le regala le musiche. Quante ragazze hanno guardato a lei, quante donne l’hanno ammirata per il suo coraggio e si sono commosse per la sua vita dolente. Quanti flash, com’è bella la luce che si irradia sul palco dove Rosy recita il suo monologo. E quanto tradimento a luci spente, quando le idealità vengono riposte nell’armadio come vecchi vestiti da pagliaccio, e la voglia di successo e di potere prende il sopravvento. “Ti voglio dire una cosa Rosy, devi prendere qualche impegno con la ‘ndrangheta…ora qua è importante la presenza del prete, del sindaco”. Rosy vuole bruciare i tempi, mettere a frutto la notorietà acquisita come icona dell’antimafia, vuole entrare in politica e il padre le dà dei consigli. E poi i vestiti, le macchine, i bei mobili, comprati con i soldi che ministeri, enti, privati versavano per affermare la cultura della legalità. Rosy è la seconda Madonna dell’antimafia che in poche settimane viene travolta da uno scandalo in Calabria. La prima è stata Carolina Girasole, sindaca di Isola Capo Rizzuto. Basta, state uccidendo la speranza. Basta in nome di Ciccio Vinci (studente di liceo ucciso il 10 dicembre 1976), in nome del mugnaio comunista Rocco Gatto, di Peppino Valarioti, intellettuale e comunista, (“non ci piegherete mai”, diceva in faccia ai boss della Piana), di Vincenzo Scuteri, operaio di destra, Dell’insegnante di Locri Francesco Panzera trucidato perché voleva impedire lo spaccio nella sua scuola, del brigadiere Carmine Tripodi ucciso a San Luca. Basta in nome di chi per combattere la mafia è morto. Erano uomini che credevano in una Calabria libera, non avevano partite Iva e tv al seguito. Solo il loro coraggio e la loro coerenza.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 13 dicembre 2013)