Immigrazione, questione di luoghi comuni


Ieri mi è capitato di assistere a un – chiamiamolo così – “esperimento sociale” che mi ha fatto riflettere molto. Sul sito lercio.it, pagina palesemente satirica ed ironica, sia nei contenuti che nella grafica, che parodizza quella di un più noto free-press, è apparso un articolo dal titolo “Kyenge shock, prendiamo cani e gatti degli italiani per sfamare gli immigrati”. Basta leggere le prime tre righe per capire che si tratta di semplice satira: “Prendiamo i cani e i gatti degli italiani per sfamare gli immigrati, vi rendete conto di quanti salmoni, vitelli, polli e selvaggina vanno a questi inutili animali da compagnia? E’ uno spreco inaudito”. Poche linee di testo che non saranno state lette, o forse non saranno state capite, da quei  visitatori del sito – e sono tanti – che sono cascati con tutte le scarpe nella “trappola”. In barba alla più elementare logica, qualcuno ha preso il titolo per vero ed ha lasciato il proprio illuminante parere in calce alla pagina senza nemmeno cercare di capire cosa stava commentando. Si va quindi dai toni più contenuti, tipo “Perché non prendiamo il tuo stipendio? Vi rendete conto di quanti soldi vanno in mano di persone inutili come te?”, ad un sentimento di indignazione più sentita ed espressa in modo colorito: “Facciamola tornare a lavorare nei campi di cotone sta negra di merda!”, dai giudizi taglienti tipo “Il mio gatto, pur essendo capriccioso e viziato, è 1.000 volte meglio della Kyenge. Fai schifo ipocrita.”, a quelli più criptici, come “Sta stronza mi casa tu casa la vorrei vede con i zingari in casa”. C’è poi l’opinionista ben informato: “vorrei ricordare a tutti che abbiamo un debito pubblico di più di 2000 miliardi, che per ogni zingaro e cittadino profugo ospitato paghiamo oltre ad un assegno mensile superiore alla pensione minima concessa ai nostri anziani che hanno pagato le tasse per una vita anche vitto, alloggio e cure mediche, senza dimenticare che la maggior parte di loro invece di ringraziarci ci derubano, violentano le donne, non rispettano le nostre leggi ed hanno riportato in Italia condizioni igienico sanitarie e malattie che noi avevamo debellato da anni.”, per finire con l’ironico alla Calderoli: “Prendiamo le scimmie…ministro inizia a scappare”. Mi stupisco ancora nel vedere quanto livore razzista ci sia metastatizzato nella nostra società. Un odio ed una frustrazione tanto repressi che vengono fuori senza neanche riflettere, senza farsi venire il dubbio di star facendo la figura dell’imbecille. Certo quello riportato qui è solo un esempio, che non vuole spiegare né generalizzare. E’ vero che di gente che parla senza collegare l’apposito cavo di collegamento tra bocca (o meglio, dita) e cervello è pieno il mondo, e che in fin dei conti su quella pagina i commenti in difesa del Ministro per l’Integrazione erano superiori a questi patetici insulti. Ma è un esempio che ci fa capire in maniera lampante come la stragrande maggioranza degli insulti rivolti alla dottoressa Kyenge non siano frutto di un ragionamento, non rappresentino un’opinione, che per quanto possa essere lontana dalla nostra, si fonda sempre su dei pensieri. Sono semplicemente un ammasso di luoghi comuni e frasi fatte sparati a zero ed in maniera del tutto pregiudiziale. Probabilmente lo stesso veleno che sputeremmo in faccia al lavavetri marocchino che ci ferma al semaforo.

L’immane strage avvenuta a Lampedusa, probabilmente, ha tirato fuori contemporaneamente il meglio ed il peggio del nostro Paese. Ha messo spalle al muro l’ipocrisia, inconsistenza e l’infima caratura della nostra classe politica che da sempre dedica una parola in più alla pancia dell’elettorato ed una in meno alla sua testa. I limiti e l’insensatezza della nostra legislazione. La nostra paura del diverso, la nostra sostanziale ignoranza. Che ci spinge a credere, quando leggiamo che “lo stato spende per ogni clandestino che arriva tot. euro”, che quei soldi vadano davvero in tasca al disgraziato di turno. Parliamo senza sapere assolutamente nulla di cosa sono e di come (non) funzionano i Cie, i nostri centri di “accoglienza” che definire tali suona come un’offesa all’intelligenza. Ghetti moderni in cui stazionano per un tempo insensatamente lungo persone che chiedono né più né meno di quello che chiederemmo noi se fossimo al loro posto. Spariamo sentenze sui “costi dell’immigrazione” senza sapere nulla di come viene gestita la mole di denaro destinata a tamponare in maniera del tutto inadeguata un’emergenza che ha smesso da un pezzo di essere tale. Ed allo specchio, l’immagine di cittadini che non si arrendono, che non abbassano lo sguardo. Perché in fondo, come ha scritto ieri Enrico Fierro sul fattoquotidiano.it, “da sempre, come da tradizione secolare, ci salva questo: siamo italiani brava gente”. Riempiamo i discorsi della parola “integrazione”, abbiamo perfino un Ministero dedicato per affrontare il problema, ma questo è il punto di partenza sbagliato. Facile dire “arrivano per delinquere”, più complicato chiedersi “quanti sono veramente partiti con questa intenzione”? E la disoccupazione, e i soldi che non ci sono, e la sicurezza… Sono problemi che non risolveremo sicuramente cosi come abbiamo fatto finora.

Viene da chiedersi perché, dov’eravamo mentre tutto ciò accadeva, cosa avremmo potuto e dovuto fare e non abbiamo fatto. Non saprei nemmeno a chi chiedere le risposte giuste. E questa voleva essere solo una piccola riflessione non tanto su quello che succede fuori, ma su quello che accade dentro di noi. Se almeno per una volta tragedie come quella di Lampedusa tirassero fuori solo il meglio di noi stessi, facendoci alzare lo sguardo e liberandoci dalla nostra gabbia di pregiudizi una volta per tutte, forse potremmo pensare che tutte queste lacrime non sono cadute invano.