“La mafia noi la vogliamo”

L’abitudine è antica e tarda a scomparire. Quando giornalisticamente c’è chi cerca di rilanciare attenzioni sopite, come quella riguardante in questo caso la ventennale latitanza del capo mafia sanguinario ed assassino Matteo Messina Denaro, ecco che le prime smentite il giornalista che scrive le raccoglie da altri giornalisti, pronti, lesti, a sminuire, a rintuzzare anche ad accendere brutte polemiche. Lirio Abbate autore dell’ultimo reportage riguardante Matteo Messina Denaro non ha bisogno certo di difese, e questa non vuole essere assolutamente una difesa, ma indubbiamente un merito gli va riconosciuto, quello di essere tornato a ricordare che in Italia c’è un super latitante da catturare, e che le indagini sulla sua ricerca non vanno mica tanto bene se sono da annoverare una serie di blitz inutili, dalla Sicilia, sino in Veneto. L’anno scorso fu il procuratore aggiunto di Palermo, Teresa Principato, a mettere nero su bianco come a suo avviso ci si stava muovendo senza una precisa strategia nella ricerca del capo mafia, poche settimane addietro al Csm il procuratore di Palermo, Francesco Messineo, andò a dire invece che errori non ne erano stati fatti. Lirio Abbate ha invece scritto che qualche errore deve esserci stato se addirittura in un caso si è pedinato sino a Padova una persona che si pensasse potesse portare a Messina Denaro o addirittura lui stesso poteva essere il capo mafia latitante dal 1993. L’ultima operazione da ricondurre alla strategia di far terra bruciata attorno a Matteo Messina Denaro risale a tre anni addietro, da allora in poi niente altro. Quindi importante che i riflettori dell’informazione sono tornati ad essere accesi, quanto meno serve a far capire a chi ha compiti di responsabilità che la stampa non si è certo dimenticata che c’è un assassino, uno stragista, da andare a catturare. Se quindi l’articolo sull’Espresso di Lirio Abbate ha un merito è certamente questo. Il resoconto che prende spunto da una vicenda tutta personale della figlia diciasettenne di Matteo Messina Denaro, Lorenza, che non è vero che è qualcosa di infondato e non importante, fa anche una sorta di riassunto delle “puntate precedenti” . Rammenta al lettore che la latitanza di Matteo Messina Denaro dura da così tanti anni perché ancora oggi il boss è circondato da una corte che lo protegge, e dove se non a Castelvetrano, il suo paese. Le ultime indagini, quelle risalenti a tre anni addietro, portate a compimento dalle Squadre Mobili di Trapani e Palermo e dallo Sco, registrate sotto il nome, non casuale di Golem (frase ebraica che sostanzialmente indica negli appartenenti al Golem portatori di messaggi, veicolatori del pensiero del capo) hanno permesso di accertare che professionisti, imprenditori, del centro belicino nel tempo si sono messi a disposizione del capo mafia sostenendone la sua icona di intoccabilità, affermando il suo essere un perseguitato dalla giustizia, riconoscendo nel frattempo che “lui è il numero uno”, “la testa dell’acqua”, “il principio di ogni cosa”. Un potere forte pronto a proteggerlo. Dinanzi al reportage de L’Espresso si è subito alzata la voce critica del sindaco di Castelvetrano, l’avv. Felice Errante, che sulla scia del suo predecessore, il dott. Gianni Pompeo, se le è presa male con la stampa ritenendo quell’articolo un atto di accusa nei confronti della città. Il sindaco Errante farebbe bene ad andare a leggere gli atti del processo Golem, la requisitoria fatta dai due pm, Paolo Guido e Marzia Sabella, la “corte” che protegge Messina Denaro non è frutto di invenzione giornalistica, trova riscontri nel processo in corso a Marsala, non è stato l’articolo un atto di accusa nei confronti della città ma di una cerchia di persone che per questi loro comportamenti sono imputati di gravi reati, la colpa della città è quella di non avere preso le dovute distanze da questi soggetti, ha fatto male il sindaco Errante a prendersela con la stampa, col giornalista, stando in silenzio poi sui fatti processuali, a fronte dei quali i pubblici ministeri hanno chiesto nei confronti di 13 imputati oltre 200 anni di carcere. La storia di Lorenza. La storia di questa ragazza, studentessa all’ultimo anno del Liceo Scientifico, è segnata sostanzialmente dal fatto di non avere mai visto il padre e però di essere cresciuta in un ambiente familiare che in tutti i modi ha cercato di imporle il senso del rispetto “mafioso”. Con la madre, Francesca Alagna, per anni ha vissuto nella casa della nonna Lorenza, vedova e mamma di boss, una abitazione dove in ogni stanza vengono tenute due foto, quella di don Ciccio, il patriarca morto in latitanza nel 1998 e quella di Matteo, padre e figlio mafiosi importanti. Lorenza quando ancora era piccola veniva spesso chiamata dalla nonna a ricevere gli “amici” del padre che andavano a fare visita alla famiglia, quando usciva veniva accompagnata dalle zie, mai da sola, le stesse zie e non la madre l’hanno accompagnata durante la preparazione per la prima comunione. A scuola erano ancora le zie a presentarsi alle insegnanti. Oggi l’articolo dell’Espresso ci racconta che questa strategia di protezione oltremodo serrata della giovane Lorenza non ha funzionato, la figlia si è ribellata a questo stato di cose ed alla fine ha ottenuto per lei e la madre un pezzo di libertà, non vivono più da tempo nella casa della nonna, le zie, le sorelle del boss, non ne hanno più il controllo. E’ poca cosa? No che non è poca cosa se l’obiettivo era quello di rendere inavvicinabile a chicchessia la giovane Lorenza. Non c’è stata, e L’Espresso non è questo che ha detto, la forma di negazione del proprio genitore, e nemmeno del nonno paterno, ma la ribellione ad un modello di vita che le volevano imporre. E’ notizia? Certo che è una notizia. E’ saltato un tassello essenziale di quel puzzle che le si era costruito addosso. Un puzzle del quale hanno fatto parte altri atteggiamenti protettivi, come quelli messi in atto nella scuola frequentata da Lorenza dove è notorio che “è vietato parlare di mafia”. Vicenda della quale diffusamente possono per esempio parlare gli attivisti di Libera a Castelvetrano che hanno potuto incontrare quegli studenti discutendo però di legalità, non docente, ma è questo quello che è accaduto. Checché ne pensi il sindaco Errante questi comportamenti non fanno onore a Castelvetrano e non i reportage giornalistici, e non è nemmeno vero che la stampa non si sia mai interessata alle cose positive che a Castelvetrano sono state anche fatte. Come la cittadinanza onoraria conferita all’allora capo della Polizia Antonio Manganelli, al quale, dopo la sua morte, si sapeva doveva essere intestata una strada, intitolazione che poi non si è più fatta forse anche perché la strada individuata è una via che di colpo si interrompe e non porta da nessuna parte. Come le polemiche insorte dopo l’articolo di Lirio Abbate, non portano da nessuna parte queste polemiche e soprattutto non portano a rendere l’antimafia più forte. E alla memoria tornano sempre quelle parole forti, accese, commosse, che Salvo Vitale pronunciò dai microfoni di Radio Aut a Cinisi a poche ore dall’omicidio di Peppino Impastato, “noi la mafia la vogliamo”. Ma non deve essere più così.