Ventimila motivi per piangere
Da pellegrino umile Francesco rompe la bolla di sapone nella quale è rinchiusa l’umanità, “l’illusione del futile, del provvisorio”, quella che porta alla “globalizzazione dell’indifferenza” parlando al mondo intero. E lo fa qui, in quest’isola che si chiama Lampedusa. Terra di turismo, di bei corpi abbronzati e divertimenti. Sole, mare limpido, buon mangiare, amore. Ma anche estremo lembo d’Europa dove i corpi di altri uomini, donne e bambini (quanti sono? chi mai riuscirà a contarli? ventimila? pochi, sono di più) si sono persi nel mare, per sempre. “Ho una spina nel cuore”, confessa Papa Francesco, che sa dei corpi straziati recuperati nelle reti dei pescatori, ha visto le immagini di quei derelitti che partono dall’Africa aggrappati sulle gabbie a contendersi uno spazio con i tonni. Il suo prete di mare, don Stefano Nastasi, gli ha parlato delle vittime sepolte nel cimitero sulla punta dell’isola. Bare di legno tutte uguali, che non hanno un nome stampato sopra, uomini diventati numeri. L’estrema offesa. “Ho una spina nel cuore”, dice il Santo Padre che di fronte ha tutta l’isola. Lampedusa è un corpo unico, una voce sola, una storia a sé di sentimenti corali, di gratitudine e affetto per l’uomo venuto dall’Argentina, per il figlio di migranti italiani che cercarono oltre le Ande la loro fortuna. Alle spalle, posta in alto a sovrastare la folla, una Madonna tutta particolare. La Madonna di Porto Salvo. La scolpirono a Cipro nel 730, i Cavalieri Templari dovevano portarla a Pisa, ma la loro nave naufragò sulle coste di Lampedusa e la Madonna rimase qui per sempre. La misero in una chiesetta “che anche i barbari sogliono venerare. Cristiani e turchi depongono lì viveri da servire per i naufraghi e gli schiavi fuggiti”, annotarono i viaggiatori del tempo. Sono gli uomini scappati dall’Africa, i moderni “schiavi fuggiti”, che anche nel giorno della visita del Papa sbarcano a Lampedusa alla ricerca di una speranza. Sono un centinaio, tutti giovani, vengono dall’Eritrea, dalla Somalia e dalla Palestina, vogliono salvarsi da guerre e fame, hanno navigato per giorni e sono stremati, vinti dalla paura e dal freddo. Il Papa non li vede, vengono portati di corsa nel Centro di accoglienza e rinchiusi lì. I bus che li trasferiscono attraversano lo spiazzo da dove Francesco parlerà della sua spina nel cuore. Vedono migliaia di uomini, donne e bambini seduti col cappellino giallo in testa, i loro occhi si fissano su quella barca trasformata in altare e non capiscono.
QUALCUNO GLI DICE che oggi è una giornata storica, che arriva il Papa. E loro sperano. “Ho sentito che dovevo venire qui – ripete più volte il Santo Padre, quasi a giustificare una decisione che ha fatto storcere il naso a tante burocrazie politiche e diplomatiche – a pregare, ma anche a risvegliare le coscienze”. Quei cuori “anestetizzati” dall’illusione del benessere. “Non potevo far finta di niente – dirà al sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini – perché in fondo al mare ci sono 20 mila morti”. Il Papa riceve in dono un libro fotografico che documenta gli anni della tragedia, i 200 mila disperati che dal 1998 sono sbarcati su questa roccia in mezzo al Mediterraneo. Sul molo, dove è arrivato dopo aver lanciato una corona di fiori in mare, ne incontra alcuni. Samir lo fa sorridere, perché indossa una maglietta bianca con la faccia del Che. Ernesto Guevara de La Serna, argentino come Francesco, e come lui, a suo modo, s’intende, amante della “tenerezza”. “Santo Padre – gli dice un giovane eritreo di religione cattolica – ci aiuti, siamo fuggiti dai nostri Paesi per la fame, le guerre”. Il Papa gli tiene la mano e gliela stringe forte quando il ragazzo gli parla del viaggio dalla Libia alle coste tunisine, degli “ostacoli superati”, dei “trafficanti che ci hanno sfruttato”. Sono immagini e parole che Papa Francesco si stampa nel cuore e che lo inducono, nel discorso pronunciato dall’altare, a lanciare il suo grido contro l’indifferenza. Lo fa con voce meno severa del monito lanciato vent’anni fa da Wojtyla nella Valle dei Templi di Agrigento contro la mafia. Il tono è dolce, le parole quasi sussurrate, è come un’implorazione al mondo politico. “Ciò che è accaduto non si ripeta più. Non si ripeta più. Per favore”. “Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo: non sono io…. Abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna, guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo poverino e continuiamo per la nostra strada”. Chi ha pianto, si chiede ancora, “per la morte di questi fratelli? Per le giovani mamme? Siamo una società che non è più capace di piangere”. E allora Francesco chiede perdono anche per “coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi”.
“FRANCESCO UNO DI NOI”, si legge su uno striscione. Ed è così, perché da subito il Papa frantuma tutti i protocolli, anche quelli, rigidissimi, imposti per la sua sicurezza. Vuole, ricerca, gli piace, il contatto fisico con questa umanità. In mare la motovedetta della Guardia Costiera che lo ospita è subito circondata da una cinquantina di pescherecci. I pescatori salutano e suonano le sirene. Su un barcone c’è uno striscione esplicito: “Il Papa la speranza, la politica la panza”. Racconta con parole sferzanti gli inganni partoriti dalle decine di passerelle politiche che qui si sono avvicendate. Le promesse di aiuti e sgravi fiscali fatte da Berlusconi e mai onorate. Faremo di Lampedusa una nuova Portofino, ma poi qui, sull’isola, è impossibile finanche nascere, non c’è un ospedale e le donne vanno a Palermo per partorire. Non c’è l’acqua, che arriva con una cisterna da Napoli e scorre salata e imbevibile dai rubinetti. Disagi di vita che hanno raccontato al Papa, lui capisce e saluta e abbraccia ripetutamente Lampedusa. Lo fa alla fine dell’omelia alzando le mani e salutando come si usa qui. ‘O scià. Che significa gioia mia, cuore mio, amore. Lo fa prendendo in braccio e baciando i bambini che gli vengono quasi lanciati tra le braccia. Lo fa incontrando don Stefano Nastasi nella sua parrocchia insieme ai sacerdoti della diocesi. Anche qui rompendo il protocollo, perché sul sagrato pronuncia un nuovo breve discorso: “Grazie abitanti di Lampedusa, grazie per quello che avete fatto, per la vostra testimonianza. Il Signore vi aiuti a mantenere questo atteggiamento tanto umano, quanto cristiano”. Quante mani stringe il Papa, quante storie ascolta, quanti sguardi incrocia. Ha voluto solo umili, pescatori e gente di Lampedusa, ha con gentilezza fatto sapere a politici e uomini di potere che non erano graditi. Non c’è spazio per miserabili passerelle. Perché oggi sull’isola della sofferenza Francesco è venuto per chiedere perdono. E per parlare all’islam. “Un pensiero ai cari immigrati musulmani che stanno iniziando il Ramadam. La Chiesa è vicina a voi e alle vostre famiglie per una vita più dignitosa. A voi ‘O scià”.
(pubblicato su Il fatto Quotidiano del 9 luglio 2013)