Abruzzo, il partito dei soldi

Tre anni dopo il “partito dei soldi” made in Abruzzo è alla sbarra. E per i padroni della sanità e i loro padrini politici piovono condanne. La più pesante, 9 anni e sei mesi, è quella inflitta a Ottaviano Del Turco, l’ex “aggiunto” della Cgil ai tempi di Luciano Lama, ex Presidente della Commissione antimafia, e poi ministro delle Finanze, infine Governatore della Regione. Quando il presidente del collegio Carmelo De Santis legge la sentenza, non è in aula. E’ a Collelongo, il paesino in provincia de l’Aquila, dove ha sempre vissuto e vive. “Sono innocente, mi hanno condannato come Tortora”, dice ai giornalisti. Ma la tragedia del presentatore di “Portobello” c’entra poco in questa vicenda di sanità svenduta. I giudici di primo grado hanno sostanzialmente creduto nell’inchiesta della procura di Pescara, soprattutto sui punti che sottolineano l’esistenza di una associazione per delinquere che attraverso violazioni della legge, opacità della gestione, mancanza di trasparenza, piegava i destini della sanità pubblica agli interessi di individuati gruppi economici. Il tutto in cambio di tangenti milionarie. Al vertice dell’associazione, secondo l’inchiesta e secondo la sentenza, l’allora governatore della Regione, Ottaviano Del Turco, l’assessore alla sanità dell’epoca, due consiglieri regionali e manager pubblici. Corruzione, associazione per delinquere, abuso, concussione, sono i reati contestati oltre che a Del Turco, a Sabatino Aracu, ex parlamentare di Forza Italia, condannato a 4 anni; Luigi Conga, ex ufficiale della Guardia di Finanza diventato manager della Asl di Chieti, 9 anni; Lamberto Quarta, fedelissimo di Del Turco, ai tempi segretario della Presidenza della giunta regionale, 6 anni e 6 mesi; Bernardo Mazzocca, ex assessore alla Sanità, 2 anni; Antonio Boschetti, ex assessore regionale alle Attività produttive, 4 anni; Camillo Cesarone, ex capogruppo regionale del Pd, 9 anni; e poi un ex dirigente dell’agenzia regionale alla Sanità, 2 anni. Infine lui, il grande accusatore, l’uomo che il difensore di Del Turco, avvocato Caiazza, definisce “uno scienziato della calunnia”, Vincenzo Maria Angelini, uno dei padroni della sanità abruzzese, l’uomo che secondo la sentenza, portava le tangenti a casa di Del Turco in sacchetti di carta che poi, prima di uscire, riempiva di mele. Gli hanno comminato una pena di tre anni, da concusso è passato a corruttore, aveva chiesto di essere risarcito e ora invece dovrà restituire soldi alla comunità. A differenza di Del Turco non parla, si fa inseguire per i corridoi dell’assurdo palazzo di giustizia di Pescara, inveisce contro i giornalisti. “Ma allora non capite? Non è che non parlo, non ho dichiarazioni da fare”. E’ sconvolto per la condanna, dicono i suoi, non se l’aspettava. Sconvolto è pure Sabatino Aracu. Una volta era tra i potenti della regione. Ex pattinatore, giornalista (dirigeva la rivista “Pattinare”), in ottimi rapporti con Berlusconi, ora scarica la colpa delle sue disgrazie sulla sua ex moglie, “colpevole” di aver consegnato un corposo dossier sulle attività del marito ai magistrati. “C’è una foresta di prove – hanno detto nell’arringa difensiva i suoi avvocati – che documenta la sete di vendetta, l’odio viscerale della signora nei confronti dell’ex marito”. Parla, invece, Nicola Trifuoggi. Era il procuratore che il 14 luglio di tre anni fa mandò in galera Ottaviano Del Turco terremotando i vertici della regione e le sorti politiche dell’Abruzzo. “Non è una giornata di gioia, non ho mai espresso felicità per le sentenze di condanna e non inizierò certo a farlo oggi”, ci dice ostentando tranquillità. Da due anni ha lasciato la toga ed è in pensione, ma ieri, alla lettura della sentenza, è tornato a palazzo di giustizia e si è seduto tra il pubblico. “Qui non ci sono vincitori e vinti, c’è uno sconfitto, lo Stato, l’intera comunità, qui si è rubato per anni sulla pelle dei malati”. A chi gli fa presente che non tutti i soldi della tangente sono stati rintracciati, l’ex procuratore ricorda la sentenza Enimont. “Chi è potente – risponde – ha mille modi per occultare i soldi. Diciamo che non siamo riusciti a ritrovare tutti i contanti”. Tace il Pd, l’ultima dichiarazione sul processo risale al 14 luglio del 2009 e venne vergata dal segretario regionale Silvio Paolucci. “Dov’è la montagna di prove annunciata dai magistrati?”, si chiedeva. Hanno risposto i giudici due anni dopo, mettendo alla sbarra quello che il pm Giuseppe Bellelli nella sua requisitoria ha definito “il partito dei soldi”, una associazione per delinquere bipartisan, che vede coinvolti sia la destra che la sinistra.
(pubblicato su Il fatto Quotidiano del 23 luglio 2013)