Enzo Bianco, cinque volte sindaco
Sinnacu di Catania per la quinta volta, una in più di Leoluca Orlando, altro sempreverde della stagione delle primavere siciliane. Enzo Bianco ce l’ha fatta a sbaragliare il suo avversario, Raffaele Stancanelli, il Pdl e i grillini (ridotti sotto il 4%). Non serve un altro turno, perché “io sono il sindaco della primavera e il ballottaggio si sarebbe svolto d’estate”, dice con quel suo tipico sorriso stampato che lo fa da sempre assomigliare a Corrado Mantoni. Una faccia da eterno ragazzo anche a 61 anni, ma dietro i sorrisi e le battute si nasconde il volto di un abilissimo navigatore nelle acque agitate della politica. Prima, seconda e terza repubblica, non c’è onda o mutamento che tenga per il ragazzo di Aidone, quattromila abitanti sui monti Erei. Iniziò nel 1976, due anni dopo la laurea in giurisprudenza, con il Partito repubblicano italiano di Giorgio La Malfa, ma Mazzini c’entrava poco in terra sicula. Qui a dominare l’edera e a dettare legge sulle carriere era Aristide Gunnella, potentissimo e chiacchieratissimo ministro. Sono anni di gavetta, prima dell’occasione d’oro: l’elezione a sindaco nel 1988. Al tempo nessuno ancora immaginava primavere e stagioni dei sindaci-cacicchi, i primi cittadini venivano eletti nelle segrete stanze dei partiti. Il plebiscito sarebbe arrivato cinque anni dopo, con l’elezione diretta. Quella volta, però, il giovane Bianco fu costretto al ballottaggio. Le speranza in Italia erano tante e a Catania, Milano del Sud, ma anche città nera per eccellenza, la sinistra poteva permettersi il lusso di dividersi. Il contendente era Claudio Fava, giovane giornalista e figlio di Pippo, la voce della Catania profonda e dell’intellettualità irrequieta, l’antimafioso che la mafia decise di eliminare una sera di gennaio del 1984. Due mondi, da una parte la Catania borghese e dei salotti dove si disegnavano strategie politiche raffinate e che nel sorridente Enzo Bianco aveva trovato l’uomo adatto per sperimentare il futuro, dall’altra quella dei “ragazzi di Pippo”. Un gruppo di pazzi che su un giornale di provincia scarnificava giorno dopo giorno la città degli affari e degli interessi mafiosi, scriveva dei Cavalieri dell’apocalisse e radiografava l’impero mafioso di Nitto Santapaola.. Enzo e Claudio, il primo vincitore, l’altro sconfitto. Perché “il nostro rinnovamento – sentenziò brindando – è coniugare moralità e trasparenza con l’efficienza amministrativa. Fava fa solo testimonianza”. La città apprezzò e chi doveva continuò a fare affari. Fu la Primavera, anni d’oro a Catania soprattutto se confrontati con il decennio successivo di Umberto Scapagnini, il medico personale di Berlusconi, e del governo della destra. Ma sono anche gli anni che lanciano l’astro siculo Bianco. Ministro dell’Interno con D’Alema e Amato per tre anni (dal 1998 al 2001), con qualche gaffe e più di un incidente. Iniziamo dagli scivoloni, un viaggio in Turchia per discutere di lotta al racket dell’immigrazione con contorno di serata particolare. Siamo a Nevschir, cuore della Cappadocia, la cena è ottima, meglio ancora le libagioni, ma il top sono le ballerine che si contorcono in una mirabile danza del ventre, una di queste, Canan Can, la più bella, si avvicina pericolosamente al tavolo degli italiani con ministro e alti dignitari del Viminale. Sempre sorridente, per mostrare di aver gradito Bianco lascia scivolare nel tesissimo reggiseno della ballerina una banconota. “Era una esibizione di folklore locale – si giustificò quando la foto finì su tutti i giornali – nell’ambito di una visita istituzionale”. Si ballò anche un anno dopo a Napoli, al Global Forum, con i poliziotti che sperimentarono in anticipo il “modello Genova”: botte da orbi ai manifestanti e una caserma della polizia trasformata nella Bolzaneto partenopea. Il ministro continuò a sorridere. Diventò accigliato qualche decennio dopo, quando il, tesoriere della Margherita, l’indimenticabile Luigi Lusi, confessò di avergli versato per anni una “paghetta” di 5500 euro al mese. “Servivano per i collaboratori cocopro”. Sorriso amaro, amarissimo dopo il flop dell’election-day del maggio 2001. L’affluenza è alta e i seggi pochi, con code fin oltre il limite della chiusura. Si votava mentre in tv già trasmettevano gli ext-poll. Scene che neppure in Uganda. Questo è il passato, la Primavera, si sa, fa rinascere.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 12 giugno 2013)