D’Alì, richiesta di condanna e lui si toglie la barba
Sette anni e quattro mesi. Questa la condanna chiesta dai pm della Dda di Palermo, Paolo Guido e Andrea Tarondo, nei confronti del senatore Tonino D’Alì, ex sottosegretario all’Interno, a Palazzo Madama dal 1994, nella scorsa legislatura presidente della Commissione Ambiente del Senato, oggi vice presidente dei senatori Pdl, e capogruppo del Pdl in commissione Finanze, nonché titolare di una serie di incarichi, da rappresentante del Parlamento in un organismo dell’Europarlamento, l’assemblea parlamentare euro mediterranea (incarico che già aveva nella scorsa legislatura e che il presidente del Senato Grasso ha confermato pur tra mille polemiche) sino ad essere a Trapani presidente del consorzio Universitario. Come dire che l’indagine giudiziaria sul suo conto non ne ha frenato la scalata politica, anzi sembra proprio che l’accelerazione di oggi sia quasi lo spunto pronto per dire domani, dinanzi ad una eventuale condanna, che la sentenza sarà al solito frutto del lavoro di giudici “comunisti”, secondo i più alti insegnamenti del cavaliere di Arcore. Ovviamente quest’ultima è una ricostruzione molto fantasiosa ma a pensar male…(dice Andreotti)…talvolta ci si azzecca. Nella sostanza è però vero che l’inchiesta, molto pesante, a carico del parlamentare trapanese non ha per nulla intaccato la carriera politica. Indagine e politica sono rimaste distanti in questi ultimi anni da quando l’inchiesta sul conto del senatore D’Alì ha ripreso vigore dopo una iniziale doppia richiesta di archiviazione, in ultimo respinta dal gip che ha disposto nuovi approfondimenti il cui esito ha portato la procura di Palermo a trasformare quella richiesta di archiviazione, che come era stata scritta sembrava proprio essere un incipit per una misura cautelare, in una richiesta di rinvio a giudizio. Il senatore D’Alì davanti al gip Francolini ha chiesto e ottenuto il processo col rito abbreviato, e però da quando con la requisitoria il dibattimento è entrato nel vivo, lui ha preferito disertare le udienze. Mercoledì scorso non c’era nell’aula del Tribunale di Palermo quando i pm Tarondo e Guido hanno chiesto la sua condanna. Era impegnato a Roma, così come era successo per le altre due udienze dedicate alla requisitoria. Anzi in una occasione era a Trapani, ad un convegno organizzato al Polo Universitario dove si muove da perfetto padrone di casa, un incontro nel quale si è parlato della sottomissione del giudice alla legge. Già è questo il tema d’attualità nel nostro Paese. Prevedere norme che tengano maggiormente sotto controllo il giudice e che invece risultino di larga mano per le altre parti del processo, ad eccezione delle parti civili però. Oppure il tema odierno è quello di avere sempre di più un giudice stretto tra norme e commi, e un politico cui viene concesso tutto. Nel nostro Paese il concetto di “sottomissione” non vale per tutti. Certamente a leggere le carte dell’accusa il senatore D’Alì non è stato uno che è stato a guardare. Nei suoi terreni ha mantenuto quei campieri che ha trovato, a Castelvetrano, in contrada Zangara, dove la sua famiglia ha grandi possedimenti, ad occuparsi della campagna dei D’Alì sono stati i famigerati Messina Denaro, Ciccio e Matteo, padre e figlio, il primo morto nel 98 il secondo latitante dal 1993, 51 anni 20 dei quali vissuti come uccel di bosco. Il capitolo sui rapporti ultra ventennali tra i Messina Denaro e D’Alì riempiono molte pagine processuali. C’è un presunto episodio di riciclaggio per 300 milioni di vecchie lire, la vendita fittizia di un terreno, il sostegno elettorale. Matteo Messina Denaro e Tonino D’Alì spesso e volentieri sono citati insieme in diversi episodi di appalti pilotati e controllo sociale. La latitanza di Matteo Messina Denaro è oggi oggetto di una forte diatriba dentro il Palazzo di Giustizia di Palermo, il Csm e il ministero della Giustizia, ma di fatto la politica, il Parlamento il Governo non si sono mai davvero interrogati sul da farsi. Oggi sembra proprio che la latitanza di Matteo Messina Denaro sia lo spunto per vendette e veleni a Palermo, risolti i quali tutto ritornerà com’era prima se non vi sarà una reale presa di conoscenza per esempio sul fatto che nel tempo alcuni “cacciatori” di Matteo Messina Denaro sono stati messi da parte. Un nome su tutti? Quello di Giuseppe Linares, ex capo della Mobile di Trapani. Fare il suo nome non significa parlare di una persona, ma significa parlare di una “squadra” di specialisti che oggi continua certamente a lavorare, la Mobile di Trapani ha un nuovo capace dirigente, Giovanni Leuci, ma che per strada ha perduto alcuni stimoli. Questa , la storia di questo gruppo di investigatori, non è un qualcosa fuori dal processo contro il senatore D’Alì, perché dentro questo dibattimento c’è la storia di funzionari dello Stato, di prefetti, questori e poliziotti che la mafia voleva avere trasferiti e in parte è stata esaudita, un prefetto “cacciato”, un questore trasferito puntualmente alla fine del periodo biennale, un investigatore…promosso. I poliziotti hanno intercettato ogni parola nel tempo, non si sa se la loro voce “tonante” sia arrivata fin dentro il Viminale, ma sta di fatto che da un giorno all’altro il prefetto Fulvio Sodano fu trasferito da Trapani, era l’estate del 2003 e quel prefetto aveva dato fastidio perché si occupava di togliere ai mafiosi i beni confiscati. Matteo Messina Denaro non è un mafioso qualsiasi, è il boss che ha saputo uccidere e poi mettersi a capo di una holding di imprese, un manager in grado da latitante di parlare con altri manager, con il re dei supermercati Giuseppe Grigoli, con il re dell’eolico Vito Nicastri, forse anche con il patron della Valtur Carmelo Patti. Patti che da piccolo imprenditore, esperto nei cablaggi per conto Fiat, ha fatto una incredibile scalata guidando un impero da 5 miliardi di euro, e che come suo commercialista aveva un certo Michele Alagna, “un commercialista – parole sue – conosciuto dal barbiere a Castelvetrano (perché anche lui come Grigoli è di Castelvetrano, la città dei boss Messina Denaro) e subito mi ha ispirato fiducia”, c’è però un particolare Alagna è il fratello di Francesca, la “compagna” di Matteo Messina Denaro con la quale durante la latitanza ha procreato una figlia, Lorenza Alagna, il nome della “nonna” paterna, e il cognome della madre. Matteo Messina Denaro è protetto da questa genere di corte che sebbene colpiti nei loro beni, con sequestri e confische, resta in piedi. E’ adorato Matteo Messina Denaro anche da chi oggi paga le conseguenze per l’aiuto a lui fornito. Contro il senatore D’Alì c’è addirittura l’accusa di un incontro tra i due in un baglio di campagna, D’Alì era già senatore, Messina Denaro era già latitante. Insomma ce ne è di ragioni perché il senatore trapanese riduca il suo impegno in politica in attesa di un giudizio, e invece lui rialza. Addirittura quando si presenterà in aula per rendere dichiarazioni spontanee, così i suoi difensori Bosco e Pellegrino, hanno fatto sapere, si presenterà con il volto pulito, senza la barba con la quale da sempre è conosciuto. Cos’è un ex voto propedeutico alla positiva risoluzione del processo? No è stata una promessa fatta ai suoi affezionati sostenitori, aveva detto loro che se Gianfranco Fini non fosse stato eletto lui avrebbe raso la barba, e così ha fatto. E’ stato di parola. Perché D’Alì è un uomo di parola e i pm sospettano che così sia stato anche con i mafiosi, anche con quel “mascalzone” di Matteo Messina Denaro così appellato dal senatore che oggi si difende dicendo di essere stato una “vittima”.
Il presidente del Senato italiano non avrebbe mai dovuto sottoscrivere la nomina di D’Alì.
Grasso lo ha fatto, giustificandosi che era un atto dovuto da parte sua, e questo segna davvero la misura del decadimanto delle istituzioni e dels enso istituzionale in Italia.
E’ angosciante.
Luigi Sabucci
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