Trapani, un delitto “quasi perfetto”
Antonino Incandela ha 32 anni, convive con una donna ed ha una bambina piccola. Proprio per non turbare la figlioletta stanotte ha chiesto ai carabinieri di non essere ripreso dalle telecamere né di vedere la sua foto stampata sui giornali dopo avere confessato di avere ucciso ha reso una confessione ai carabinieri del delitto di un prete, padre Michele Di Stefano, trovato il 26 febbraio scorso senza vita a letto, nella sua canonica della chiesa di Ummari (piccolo borgo agricolo a qualche chilometro da Trapani, in Sicilia). Ha chiesto un favore e l’accordo i militari lo hanno rispettato, un patto d’onore, onore che Incandela ha riscoperto dinanzi alle accuse che ha ricevuto e di fronte alla prova schiacciante che lo ha incastrato. Lui perfettamente lucido ha commesso quel delitto e poi ha fatto sparire le prove, impegnandosi moltissimo, e possiamo dire riuscendoci anche, a non lasciarne altre, sennonché ha commesso un passo falso, rubare il postamat alla madre 20 giorni dopo avere ucciso il sacerdote e dopo avergli rubato il bancomat anche allo stesso prete. La madre ignara che i carabinieri indagavano sul figlio per l’omicidio di quel prete che anche lei, abitante nella frazione di Ummari, come tanti altri, ben conosceva, ha denunciato ai militari la sparizione del bancomat ed ha espresso i suoi sospetti, “è stato mio figlio”, sospetto diventato certezza quando i carabinieri le hanno mostrato un paio di fotogrammi tratti da immagini catturate da una videocamera posta a sorveglianza di un bancomat, lei, seppure quelle immagini non erano perfettamente limpide, nonostante il tizio ripreso avesse fatto in modo di non essere riconosciuto, non ha avuto dubbi nel dire, “quello è mio figlio”; il momento ripreso però non era quello mentre utilizzava il postamat sottratto alla madre, ma il bancomat portato via dall’auto del prete ucciso. Stanotte leggendo quel verbale firmato dalla madre, Antonino Incandela ha deciso di gettare via la maschera e confessare il delitto.
Era la mattina del 26 febbraio scorso quando i parenti scoprirono il corpo di don Michele Di Stefano, morto, la testa fracassata, deformata, si capì subito che era stato ucciso da una serie di colpi inferti al capo con un bastone, forse con qualcosa di più pesante, c’era sangue, tanto sangue, vicino al letto, niente nei luoghi circostanti, apparentemente tutto era in ordine, i carabinieri fecero intervenire i corpi speciali per le indagini scientifiche, ricostruirono che chi aveva ucciso era entrato da una finestra laterale della canonica ma era uscito dalla porta principale della chiesa. Apparentemente non mancava nulla. Fuori c’era anche l’auto del prete, una golf, qualcuno vi aveva rovistato dentro. L’assassino non c’è dubbio, ma anche in questo caso nessuna impronta. Passando le ore e si scoprirà che mancavano un portamonete, ma anche, ma questo non verrà divulgato dai militari, un bancomat. La Procura pensò bene di impedire alla banca titolare del bancomat di bloccarlo, ma i tempi burocratici della giustizia non sono quelli di un istituto bancario e così poche ore dopo l’omicidio il bancomat era già stato reso inutilizzabile. Chi lo possedeva, l’assassino, era riuscito a usarlo tre volte, una prima volta nella notte del delitto, riuscendo a fare un prelievo da 250 euro, poi nelle successive ore diurne e l’indomani ancora, ma la carta non funzionava più e infine è stata trattenuta. Le immagini tratte dalle video camere di sorveglianza poste nei pressi dei bancomat purtroppo non sono risultate efficaci per identificare chi usava quel bancomat, ma c’era il fatto che chi aveva provato a fare i prelevamenti aveva fatto in modo di non farsi riprendere, usando un cappellino, mettendo dei guanti per non lasciare impronte. Qualcosa che però non ha potuto nascondere c’era, un naso molto pronunciato e il pizzetto. A questo punto delle indagini è entrata in campo la bravura dei carabinieri che stanno sul luogo, quelli della stazione di Fulgatore che si occupano anche della vicina Ummari. Il maresciallo e l’appuntato, come si vede nelle più note fiction, quando abitano in piccoli luoghi finiscono con il conoscere tutti, e quell’uomo con quel naso e il pizzetto, poco a poco comincia a prendere una sua identità. Potrebbe essere Antonino Incandela. Le caratteristiche le possiede tutto. Ha dei precedenti, è un tipo violento, non ha esitato anni prima a dar fuoco alla villetta del mancato suocero, dopo che la di lei figlia aveva deciso di troncare la relazione, poi aveva dato fuoco ad altre due villette di amici dell’ex fidanzata, così per fare vedere cosa era in grado di compiere, e che di lui bisognava avere solo paura. Particolare che tornerà nel delitto di padre Di Stefano. Viene così seguito, pedinato, intercettato. Antonino Incandela da dicembre è tornato a Trapani, per quattro anni ha lavorato a Pantelleria come manovale, ha una casa al mare a Marausa, sempre nel trapanese, ma dalla parte opposta rispetto a Ummari, un paio di chilometri di distanza, ad Ummari abitano i suoi genitori, con i quali trascorre tempo e giornate. Anche la sera del delitto di padre Michele era con la sua famiglia a casa dei genitori, hanno dormito lì, lui per la verità quella notte dormì poco. E’ solitario Antonino Incandela, non frequenta nessuno, si muove da solo, le intercettazioni non tradiscono nulla, nemmeno una parola sul delitto e poi non aveva nessuno con cui eventualmente parlarne, nei giorni del delitto i carabinieri hanno ricostruito che lui si era fatto vedere al bar del borgo a chiedere notizie, se si sapesse qualcosa su chi avesse ucciso padre Di Stefano, lui tanto accorato perché padre Di Stefano era stato anche suo professore di religione alla scuola media. Curioso come altri di sapere. Apparentemente. Le ricerche delle prove nel frattempo continuano, i carabinieri scandagliano ogni ambiente che Incandela frequenta, riguardano quei filmati delle video camere poste sui bancomat “visitati” da chi ha usato il bancomat di padre Michele, ma le immagini non riescono a dare migliori risultati, non si trova l’arma del delitto, in canonica non si trovano impronte, stessa cosa sull’auto del prete, perfettamente “pulite”. Venti giorni dopo il delitto la madre di Antonino Incandela si presenta ai carabinieri e fa la sua denuncia e rende quella dichiarazione sul sospetto che il figlio le abbia rubato denaro usando il suo postamat. E’ la svolta incredibile. Ieri sera i carabinieri convocano in caserma Incandela, scattano le perquisizioni nelle sue abitazioni, dopo che qualche ora prima la donna, assieme al marito, i genitori di Incandela, riconvocati dai carabinieri riconoscevano sui fotogrammi delle video camere il figlio. Appena fuori dalla caserma, intercettati, marito e moglie che credevano che la loro convocazione fosse solo dovuta alla loro denuncia, sono stati sentiti discutere di più approfonditi particolari che avevano colto in quelle immagini, “hai visto il maglione che indossava, quello – diceva la moglie al marito – più volte l’ho lavato io”.