La povertà e la follia
Una storia di ordinaria disperazione e di lucidissima follia. Potrebbe essere chiusa così la storia di Luigi Preiti e di quella sua domenica di sangue che ha fatto tremare l’Italia. Gli spari a Palazzo Chigi proprio mentre al Quirinale giurava il nuovo governo. Il rumore sordo dei colpi di pistola nel cuore della Roma politica, proprio come negli anni bui del terrorismo, due carabinieri a terra e una donna colpita di striscio. Servizi di sicurezza impazziti e un uomo, bloccato da altri carabinieri, che urla. “Ammazzatemi, sparatemi voi, fatelo, vi prego…”. Si chiama Luigi Preiti, il nome si sa subito. E’ lui l’attentatore. E allora si scava nella vita passata di quest’uomo. Si cercano le sue simpatie politiche (subito gli avvelenatori del web, in sintonia con i deliri di Alemanno, ipotizzano sue simpatie per il Movimento Cinque Stelle), si approfondiscono le sue origini. E’ calabrese di Rosarno, quindi è vicino alla ‘ndrangheta. E poi quel cognome, Preiti, rimanda a Domenico e Roberto considerati vicini alla cosca Pesce. Sono suoi lontani parenti. Pochi rapporti con loro. Chi era Luigi Preiti, detto Gino, te lo raccontano i familiari, gli amici, il suo profilo facebook straripante di immagini sacre, chi lo ha conosciuto. Tanti giudizi, pochi aneddoti, un dato comune: nessuno, neppure il fratello e le tre sorelle o gli amici più vicini, è riuscito a capire la vera personalità di Gino. Che negli anni Ottanta lascia quella casa alla periferia di Rosarno, lembo estremo e dimenticato della Calabria. I genitori sono vecchi e malati e vivono con la loro pensione di braccianti agricoli. Alla Cgil di Gioia ancora ricordano la madre, sempre attiva nelle lotte delle raccoglitrici di olive. E’ la povertà, che Gigi affronta emigrando al Nord. Va a Pedrosa, in provincia di Alessandria, e apre una impresa individuale edile. Si sposa, mette al mondo un figlio che oggi ha undici anni, ma il lavoro va male e Gino si dibatte tra i debiti e il suo maledetto vizio: il gioco. Biliardo e slot-machine, videopoker e bazzica lo portano alla rovina. Il matrimonio si sgretola, l’impresa soccombe sotto i colpi della crisi. Si sente un fallito, Gigi, quando due anni fa è costretto a tornare indietro, a Rosarno, a casa dei suoi. “Sono un disperato ma non odio nessuno – ha detto tra le lacrime ai magistrati Pierfilippo Laviani e Antonella Nespola -. Volevo fare un gesto eclatante in un giorno importante, volevo colpire i politici”. Parole e atteggiamenti da squilibrato che però cozzano fortemente con l’organizzazione del gesto: lucida, precisa, fredda. Era tranquillo, Gigi, sabato pomeriggio alla stazione di Gioia Tauro quando è stato fermato dagli agenti della Polfer per un normale controllo dei documenti. Era tranquillo venti giorni fa quando, per sua stessa ammissione davanti ai pubblici ministeri romani, ha confessato che stava pensando al “gesto eclatante”. Venti giorni vissuti a pensare all’obiettivo da colpire, a riflettere sul come e sul quando. E senza mai tradire emozione. “Ci siamo visti due giorni fa – dice Domenico Macrì, un suo amico – mi è sembrato tranquillo, turbato perché non aveva lavoro e per la sua situazione familiare. Deve essergli andato in tilt il cervello”. “Non aveva mai dato segni di squilibrio – racconta Elisabetta Tripodi, il sindaco di Rosarno -, non mi risulta sia mai stato segnalato dai servizi sociali”. “Era una persona assolutamente normale, spesso ci si vedeva al bar del paese”, ricorda Mario Trucco, ex sindaco di Pedrosa. “Mio fratello non era né un pazzo, né un terrorista”, si dispera il fratello Arcangelo, che chiede scusa “ai carabinieri feriti, alla donna colpita e a tutti gli italiani. Nessuno di noi poteva supporre cosa sarebbe successo”. Non basta la disperazione di un uomo fallito per spiegare quello che è successo. E allora ieri per tutto il giorno i carabinieri hanno setacciato la povera casa di Rosarno dove Gino viveva, hanno interrogato a lungo la madre e il fratello, perquisita la Peugeout abbandonata alla stazione di Gioia. Alla ricerca di una traccia, uno scritto, un movente credibile.
(con Lucio Musolino pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 29 aprile 2013)