Maroni e l’Italia della crisi
di Luigi Pandolfi
Nell’Italia dell’attuale pantano politico ed istituzionale, della crisi economica e della recessione, s’odono dei motivetti, peraltro non nuovi e mai del tutto sopiti, che costituiscono la classica ciliegina sulla torta in un paese sfilacciato, stremato, in crisi di identità.
La Lega Nord si è affacciata poco nell’arena dello scontro elettorale nazionale, concentrandosi essenzialmente sul voto lombardo. Dismessi i vecchi arnesi mitico – ideologici dell’era bossiana, il partito di Maroni ha giocato nella competizione per il governo della più ricca regione del paese due carte: quella del trattenimento nelle regioni del 75% del gettito fiscale e quella della creazione della macroregione del nord.
Inutile dire che nella pratica il raggiungimento di questi due obiettivi richiederebbe una serie di modifiche alla legislazione nazionale ed alla Costituzione che nella situazione data non sono minimamente prefigurabili.
Né è pensabile che su questi obiettivi il nuovo capo del Carroccio possa incontrare in futuro il sostegno, la complicità, delle altre regioni italiane, comprese quelle del nord.
Solo propaganda allora? Per certi versi si. Due ultimissime dichiarazioni del neopresidente della Lombardia ci dicono, nondimeno, quanto grave sia il grado di disfacimento del quadro politico – istituzionale del paese, e quanto deleterie possano essere talune sortite propagandistiche. La Prima: “Roma mi sembra incartata mentre il nord ha un governo stabile o comunque l’avrà fra qualche giorno”. La seconda: “Creeremo la macroregione del Nord e negozieremo con Roma e Bruxelles”.
Si noti bene: nel linguaggio del presidente Maroni il nord, la Lombardia, è sempre citata in contrapposizione a Roma, laddove per Roma si intende, naturalmente, lo stato Italiano. Noi il nord, la Lombardia, voi lo Stato italiano.
In questo tipo di evocazioni c’entra molto l’elemento propagandistico, ovviamente. È stato sempre così nella storia paradossale della Lega, ieri la Padania oggi la macroregione. Il problema è che a proferire queste cose non è il leader di un partito politico antisistema, marginale sul piano istituzionale, ma il governatore di una regione, che avrebbe ben altri doveri in base al dettato della Costituzione vigente.
Si, certo, è un film già visto. Già a “Roma” i capi della Lega, quando occupavano poltrone ministeriali, si distinsero per il loro rapporto conflittuale con le stesse istituzioni che erano stati chiamati a rappresentare e con la legge fondamentale dello Stato su cui pure, ipocritamente, avevano giurato.
Il fatto che la Lega ci abbia abituato a questo tipo di esternazioni, non significa però che le stesse si debbano continuare a tollerare, a derubricare a manifestazioni di innocua propaganda. D’altro canto la propaganda è parte integrante dell’agire politico, ma, in un paese normale, non è ammesso che la stessa venga fatta utilizzando le istituzioni.
Poi c’è il clima nel quale queste cose accadono. È il clima di un paese fortemente provato dalla crisi e dalle misure d’austerità che sono state fin qui adottate, nel quale la fiducia nelle istituzioni e nella politica è ai minimi storici, dove regna la massima confusione sul piano politico e prosperano tendenze populiste vecchie e nuove. Quel clima nel quale si incontrano la crisi dei distretti industriali del nord e la drammatica disoccupazione del sud, il dramma del piccolo imprenditore-artigiano del vicentino e quello del giovane inoccupato calabrese.
Beh, in questo contesto quello di cui proprio non si sente il bisogno è il tentativo di rinfocolare, dare ossigeno, a certe spinte antiunitarie che provengono da una parte del paese, dandola a bere che dalla situazione di difficoltà, dalla crisi economica, le regioni del nord possano cacciarsene attraverso la balcanizzazione del paese, costituendo micro -patrie sul modello degli staterelli ex iugoslavi, fuggendo dallo Stato unitario.
Il discorso vale per la fantomatica macroregione evocata da Maroni, ma anche per l’indipendentismo veneto, cui il governatore Zaia continuamente ammicca per stare al passo dei movimenti più radicali che, in loco, propugnano l’idea di uno stato veneto sovrano.
Posto che quest’ultima suggestione è assolutamente incompatibile col disegno neopadano di Maroni, entrambe le provocazioni andrebbero seriamente contrastate, sia sul piano politico che su quello culturale, dimostrando la loro inconsistenza anche dal lato della prospettiva economica.
Non solo. Al di là delle reali intenzioni dei dirigenti del Carroccio, il continuo picconare le istituzioni repubblicane, il veicolare sistematicamente un messaggio di divisione, senza che da parte delle altre forze politiche, delle autorità statali, dei media democratici, ci sia una forte azione di contrasto, rischia di determinare una situazione di estrema congenialità al disegno di mandare in pezzi lo Stato unitario.
Paradossalmente si potrebbe determinare uno scollamento di aree del paese dal resto della nazione a prescindere dalle azioni leghiste dirette a questo obiettivo. Mi spiego. Vent’anni fa se qualcuno parlava di federalismo in Italia, non dico che rischiava di essere arrestato, ma certamente finiva per essere isolato alla stregua di un pericoloso sovversivo. Oggi non c’è partito politico che non si professi, almeno in linea di principio, federalista. La stessa cosa vale, come ho scritto in altre occasioni, per il concetto di padania: a furia di parlarne, almeno sui giornali e nel linguaggio politico, perfino nella toponomastica, è finita per esistere davvero.
È la normalità, o la normalizzazione di certi atteggiamenti, che in questo caso può rivelarsi fatale. L’idea che sia “normale”, per stare al punto, che il presidente di una regione si rivolga alla classe politica del proprio paese come se si trattasse della classe politica di un paese straniero.