La trattativa Stato – mafia per il collaboratore Francesco Di Carlo

(di Elisabetta Cannone)
“Falcone e Borsellino? Non avevano capito Cosa nostra, perché la loro era la mentalità onesta. Stavano toccando certi poteri forti e quando si fa questo è lì che si arriva…”. Francesco Di Carlo, ex boss di Altofonte, che si definisce “solo manovalanza”, e collaboratore di giustizia parla a ruota libera di trattativa Stato-mafia e dei legami tra politica e Cosa nostra.
Della trattativa Stato-mafia, quella degli anni ’92-’93 dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio costate la vita ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, avviata per cessare la strategia della tensione e iniziare un linea morbida da parte dello Stato nei confronti dei boss, lui ha una idea ben precisa.
“La trattativa in realtà c’é sempre stata – sostiene Di Carlo -. Diciamo che si è trattato di interessamento, ecco. Nel ’93-’94, dentro Cosa nostra ormai non c’erano più i cervelli giusti: Bagarella era senza cervello, Giovanni Brusca, a detta di suo padre e non lo dico io, era un mezzo cervello. Io poi l’ho conosciuto e posso dire che è vero. Ma la trattativa era iniziata già negli anni ’80 per fermare i giudici e poi si arriva alle stragi del 1992. Serviva – continua ancora l’ex boss di Altofonte – a far alleggerire il carcere ai boss, per il 41 bis. Non c’entra niente con le morti. Il lavoro svolto dai magistrati di Palermo, con Di Matteo e Ingroia, e quelli di Caltanissetta fanno paura perché scavando si arriva a scoprire cosa c’era prima. E quello che c’era lo racconterò in un libro che è quasi pronto”.
La conversazione con Di Carlo continua su quello che per lui è Cosa nostra e mafia nel nostro Paese, per proseguire in una sua lettura dei più importanti fatti politici arrivando alle porte di queste elezioni. I contatti tra Cosa nostra sarebbero tanto vecchi quanto la storia stessa del nostro Paese. A partire dall’Unità d’Italia con Garibaldi: “ma di cosa parliamo? Garibaldi secondo voi a chi si è rivolto per primo quando è sceso in Sicilia?”, e poi con Crispi, e il fascismo: “Nella seconda guerra mondiale i sindaci di alcuni paesi erano capi di Cosa nostra”.
“Cosa nostra non è una associazione di ladri o di pecorai – precisa Di Carlo -, è uno Stato dentro un altro Stato. È questo che si deve capire. Ed è cosa ben diversa dalla mafia, o meglio dalla mafiosità che è una cultura che in Italia esiste a tutti i livelli, anche quelli che sembrano più legali. Appartiene alle persone senza che se ne rendano conto. Finché non finirà questa mentalità, l’Italia non cambierà. Altro che concorso esterno in associazione mafiosa, bisognerebbe istituire il reato di ideologia mafiosa”.
E per suffragare questa sua teoria, Di Carlo tira in ballo anche le intercettazioni che vedono protagonisti l’ex ministro Mancino e il presidente della Repubblica Napolitano. “Cos’è se non omertà il non voler far conoscere il contenuto di quelle intercettazioni – domanda -, cosa c’è che non si può sapere? Era Mancino che volevano intercettare in quelle registrazioni”.
Politica e Cosa nostra. Due protagonisti a quanto pare indispensabili gli uni agli altri, ognuno con un proprio tornaconto da questa relazione.
“Il politico pur di sedersi su di una poltrona è disposto a tutto, a fare patti e promettere favori. Ma quando lo fai a Cosa nostra, di promettere, è pericoloso perché poi lo devi mantenere – afferma Di Carlo -. In Italia, con lo spauracchio dei comunisti, e dietro l’aiuto degli americani, si è anche tentato un colpo di stato militare. Anche in questo caso, secondo voi a chi si sono rivolti in Sicilia?”.
Ma c’è anche la storia presente nei discorsi di Di Carlo. Un attacco ai politici attuali rispetto ai quali si sente, giuridicamente parlando, “più pulito di tanti che siedono in Parlamento”.
“Dell’Utri, oggi, lo definisco uno “sfortunato”, uno che è stato sacrificato da Berlusconi in queste elezioni che lo ha messo fuori dalle liste – spiega l’ex boss di Altofonte -. Di lui non posso dire che è Cosa nostra, so che lo volevano “combinare”. E Berlusconi, poi, imputato ma lui sempre libero mentre Dell’Utri coinvolto in 15 anni di vicende”.
Ed è proprio di Berlusconi che continua a parlare riferendosi a una “cultura della dittatura”. “E’ uno che pensa di voler stracciare la Costituzione appena arrivato in Parlamento e vuole poter cambiare i ministri che lo contraddicono, come se fosse in un’azienda”, sentenzia Di Carlo. L’altro affondo parte dal 2008. “Mi ricordo che erano le elezioni in cui vinse Berlusconi – racconta ancora -. Veltroni andava dicendo che non voleva i voti né della mafia né della ‘ndrangheta. Qualche giorno dopo Dell’Utri se ne uscì con la frase che Mangano era un eroe. Poi Berlusconi, che disse di avere ammirazione per quella persona. Per la mentalità comune, delinquenziale e di Cosa nostra personaggi come quello appartengono a loro e non a chi li contrasta. E la gente per bisogno, per mancanza di lavoro vota”.
Dall’attacco alla politica alla difesa della magistratura. “Il nostro paese ha i migliori magistrati – sottolinea Di Carlo -. Ma si vuole attaccare la magistratura perché fa paura, perché è l’unica istituzione più indipendente e la vogliono assoggettare. C’è una delegittimazione nelle parole di Berlusconi quando li prende di mira definendoli “antropologicamente diversi”.