L’Ilva minaccia

Alla fine, dopo sei mesi di scioperi, manifestazioni, scontri tra governo e magistratura, sull’Ilva si torna al punto di partenza. Con Bruno Ferrante, presidente del colosso siderurgico, che al consiglio dei ministri convocato ieri e durato fino a tarda sera, minaccia di mettere in cassa integrazione gli operai di Taranto e delle altre fabbriche del gruppo Riva, se non si libera il materiale sequestrato dalla procura di Taranto e al centro della disputa col governo sulla legge salva-Ilva. Il sottosegretario Antonio Catricalà annuncia un consiglio dei ministri per martedì “che consenta di sbloccare la situazione”. Ma a Taranto sta crollando tutto. La città è in bilico sui suoi due mari, pronta a sprofondarci dentro con la sua fabbrica pane e veleno e gli operai oggi ridotti a soldati di un esercito in rotta. I generali sono fuggiti, giù, nello “stabilimento”, come qui chiamano la più grande acciaieria d’Europa, è rimasto solo un colonnello senza parole e con le tasche vuote, il direttore generale Aldo Buffo. Non ci sono i Riva, i padroni delle ferriere responsabili dello sfascio. Emilio, il vecchio patron, e il figlio Nicola, sono agli arresti domiciliari nelle loro ville liguri. Non si è visto ed è muto l’ex prefetto Bruno Ferrante. La fabbrica è in ginocchio come mai nella sua storia. Non ci sono i soldi per pagare gli stipendi. Il colosso dell’acciaio che appena due anni fa fatturava 9,5 miliardi e che è il cuore dell’economia di Taranto e della Puglia (75% del pil della città e 20% di quello dell’intera regione), non sa se a fine mese potrà tirar fuori i 75 milioni di euro necessari per pagare i suoi 12mila dipendenti. “O interviene lo Stato o qui crolla tutto”, dice un operaio, uno dei tanti che da giorni presidiano i cancelli dei varchi C ed Ovest e impediscono l’uscita delle merci. La tensione è altissima: duemila operai in cassa integrazione, gli altri che rischiano lo stipendio, 400 autotrasportatori, una parte importante del vasto indotto che ruota attorno all’acciaio, fermi e ormai con l’acqua alla gola. I sindacati sono divisi, lo sciopero ad oltranza è stato proclamato solo dalla Fim-Cisl e dai Cobas col sostegno del Comitato dei “cittadini liberi e pensanti”. “Se i Riva non hanno i soldi per gli stipendi, figuriamoci se hanno i 4 miliardi necessari per avviare i lavori prescritti nell’Aia (Autorizzazione ambientale). La verità è che qui non c’è un piano industriale di lungo termine”, dice Cosimo Panarelli, segretario Fim-Cisl. A sera l’assemblea permanente degli operai chiede “la nazionalizzazione dell’Ilva”. E’ proprio un brutto gioco quello che si sta facendo a Taranto sulla pelle dei lavoratori e dell’intera città. Non è bastata la legge salva-Ilva, il conflitto aperto con la magistratura e che ancora ieri, inspiegabilmente, il ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha alimentato con una sua dichiarazione: “Nel caso di Taranto ci troviamo di fronte alla situazione inedita della contestazione da parte della magistratura di leggi e direttive”. “All’Ilva di Genova stanno lavorando con il nostro materiale – urlano invece gli operai riuniti al gelo nel piazzale dello stabilimento -, perché da noi l’area a freddo è ferma, nonostante non sia stata sequestrata, che gioco sta facendo l’azienda?”. La lenta agonia della fabbrica è negli altiforni fermi, un rischio per la sicurezza dei lavoratori e della città. Nel primo pomeriggio il prefetto convoca i sindacati e il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica. I forni non alimentati possono crollare, c’è il rischio di esplosioni, e allora filtra la notizia che una ottantina di operai specializzati verranno precettati per tenerli in funzione. La morte dell’acciaio è stampata su quel milione e 700mila tonnellate di coils sequestrati dalla procura e fermi sui piazzali che sono al centro del braccio di ferro tra i magistrati e il governo. Deciderà la Consulta se l’emendamento approvato dal governo che ne ordinava la restituzione all’Ilva è costituzionale o no. Si tratta di materiale che sul mercato può valere 1 miliardo, ma il cui valore, da fermo, scende a 600mila euro. L’Ilva denuncia la perdita di importanti commesse estere e spinge per il dissequestro. Nichi Vendola, il governatore della Puglia, chiede al governo di attivarsi perché la Consulta, che ha fissato una prima seduta per il 13 febbraio, anticipi la decisione. E non basta a placare gli animi, l’annuncio del sindaco che ha fissato la data del referendum. Due le domande: volete chiudere l’Ilva definitivamente, oppure chiudere solo l’aria a caldo? Dopo sei mesi di tensione si torna al punto di partenza: Taranto deve decidere se morire di veleni o di disoccupazione.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 19 gennaio 2013)