La Shoah, la memoria e la Vita Activa di Annah Arendt

Il ricordo delle vittime della Shoah quest’anno arriva in un momento storico molto particolare per il nostro Paese. Un momento di crisi, di trasformazioni politiche ed economiche, in un momento in cui abbiamo assistito quasi inermi a scandali e intrecci a vari livelli. Ecco perché ci piace ricordare una delle pagine più brutte della storia mondiale partendo dall’insegnamento di Annah Arendt. Perché il ricordo e la memoria vadano oltre le celebrazioni di una giornata. Perché proprio nel ricordo possiamo recuperare il senso più profondo della democrazia. Qual è lo spazio consentito a un agire politico che non sia solo angusta difesa degli interessi materiali o rituale comportamento elettorale? Una domanda fondamentale che la Arendt pose in una delle sue maggiori opere sulla democrazia: Vita Activa. In quello che è stato definito uno dei suoi libri più “greci” proprio rispetto al senso di democrazia, Annah Arendt cerca di spiegare sotto il profilo filosofico che cosa significhi la cittadinanza per tutti coloro che ne fanno esperienza. Essere cittadino significa in questo senso farsi riconoscere come tale in un modo assolutamente nuovo e diverso. Secondo la Arendt, soltanto le parole dette sul bene pubblico, in condizioni di estremo rischio o pericolo, rivelano il nostro io. La convinzione più profonda della Arendt è che la cittadinanza, se rettamente intesa, può riscattare la vita dalla sua maledizione. A volte ricorre la frase che “siamo un popolo senza memoria”. Ed è probabilmente la carenza di conoscenza della realtà storica all’origine dell’esclusione del fascismo dalla categoria del totalitarismo. Ed è probabilmente la carenza di conoscenza storica che spesso ci fa fare passi indietro, nei governi, nelle azioni collettive, nella mancanza di senso comune. Partendo dalle tesi della Arendt ci troviamo catapultati nel periodo del pensiero “nobile” per eccellenza. Lo spazio greco della democrazia intesa come partecipazione collettiva, vita attiva. L’unico invito in una giornata di ricordo di tutte le vittime del fascismo e delle leggi razziali (la parola leggi e la parola razziali, tuttavia, mal si accostano) è quello di non dimenticare, di fare memoria e non commemorare e basta. Ricordiamo che, come diceva la Arendt, con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica individuale. Il pensiero filosofico della Arendt è molto profondo, nonostante non si definisse una filosofa. Noi la ricordiamo come una donna, dal pensiero illuminante e raffinato, che si è impegnata molto per tutelare la comunità ebraica, la sua comunità. D’altronde il male, come suggerisce il titolo di uno dei suo scritti, è banale. Frutto dell’assenza di radici, di memoria, di non ritornare sui propri passi per la mancanza di dialogo. Unica sintesi possibile in un universo di persone “uguali e diverse”. E infatti: “La pluralità umana, condizione fondamentale sia del discorso sia dell’azione, ha il duplice carattere dell’eguaglianza e della distinzione. Se gli uomini non fossero uguali, non potrebbero né comprendersi fra loro, né comprendere i propri predecessori, né fare progetti per il futuro e prevedere le necessità dei loro successori. Se gli uomini non fossero diversi, e ogni essere umano distinto da ogni altro che è, fu o mai sarà, non avrebbero bisogno né del discorso né dell’azione per comprendersi a vicenda. Sarebbero soltanto sufficienti segni e suoni per comunicare desideri e necessità immediati e identici”.