Alaco: l’invaso avvelenato
(di Angelo De Luca)
La baronessa donna Candida, narra la leggenda, era solita passare le vacanze estive al castello dell’Alaco, zona umida e boscosa delle Serre vibonesi. Di quel podere rimane oggi un rudere abbandonato, nascosto tra la fitta vegetazione e il cemento colato a gratis dai fondi a pioggia arrivati dalla famosa e defunta Casmez. Nulla rimane più. Nulla a parte la leggenda di donna Candida la “lussuriosa”. Calabria terra d’amuri e Calabria terra di passioni. E d’amuri e di passioni si moriva anche allora. Perché la baronessa, in quella gola che oggi ospita un invaso “avvelenato”, faceva scomparire tutti i boscaioli che notte tempo si portava a letto. “Li ammucchiava ntà li sabbi mobili”, narra la tradizione orale del luogo. Ed era questa, infatti, la peculiarità dell’Alaco. Acqua buona solo per nascondere dei cadaveri. Perché in quella gola tutto diventa profondo. In passato, secondo leggenda, gli sventurati caduti nelle perversioni della baronessa, mentre nel presente, secondo la realtà, le ribattezzate vacche sacre che pascolano senza padrone ai piedi del lago, i rifiuti ingombranti nascosti nel sottofondo e le scomode verità nascoste nei cassetti di chi su quell’invaso ci ha messo le mani nel 2005. Quel bacino artificiale, nonostante da queste parti le sorgenti pure sgorghino come il petrolio nei deserti dell’Arabia, rifornisce da anni un terzo dei Comuni calabresi. Niente di strano se non fosse che quel liquido prezioso è sotto inchiesta. Dalla popolazione prima, che rivendica da sempre il diritto sacrosanto a bere e mangiare acqua pulita, visto ciò che fuoriesce dai rubinetti delle case di ognuno, e dalla magistratura poi, che il 15 maggio scorso ne ha disposto il sequestro preventivo per via delle anomalie riscontrate.
Anomalie, quindi, che da qualche tempo hanno pure una certificazione. “Un quadro grave – aveva sottolineato il pm Mario Spagnuolo, che tra le accuse a sindaci, dirigenti e Arpacal, ipotizzava, fra gli altri, il reato di “avvelenamento colposo” – per la salute pubblica”. Soprattutto perché le analisi venivano effettuate da Arpacal in maniera saltuaria, mentre la documentazione in merito allo stato delle acque risultava carente e le verifiche e i controlli erano insufficienti. Ferro e manganese a iosa. Alluminio, monitorato “con apparecchiature inattendibili”, un giorno si e dieci no. Strana vegetazione che cresce nei fondali e schiume chimiche che proliferano in superficie. E i 40 Comuni serviti dal duo Sorical-Veolia ancora oggi si approvvigionano da tale bacino. Non per volontà degli utenti ma, strano a dirsi, per volontà di coloro i quali per dovere istituzionale dovrebbe garantire proprio quella salute pubblica messa a rischio dai loro fornitori. Certo, chiudere l’acqua a 400 mila calabresi non sarebbe la soluzione più felice. Del resto, anche la Procura ha sequestrato l’impianto con l’asterisco, volendo dare una possibilità ai sindaci interessati di trovare, nei prossimi due anni, soluzioni alternative prima della definitiva chiusura, ma che, ad oggi, non sono neanche contemplate dai tanti primi cittadini calabresi. Per questo e per mille altri motivi, sabato mattina circa 300 cittadini calabresi, con i testa gli indignados del comitato “Pro-Serre”, si sono nuovamente recati all’invaso dell’Alaco per rivendicare mille e altri diritti.
L’acqua buona su tutti; il ritorno ai pozzi comunali come conseguenza; e il risveglio collettivo come responsabilità. Da parte della politica innanzitutto, rea, secondo i presenti, “di continuare a giocare con la salute dei cittadini”. “Non hanno individuato – hanno spiegato gli organizzatori serresi del sit-in – una soluzione alternativa alla ormai conclamata situazione dell’Alaco, continuando a fare orecchie da mercante ai nostri continuativi appelli. Noi non possiamo pagare e bere questo schifo. Non lo possiamo permettere dal momento che su dieci acque di qualità in Italia, tre provengono proprio dalle sorgenti delle Serre”. E dargli torto, così come ad esempio faceva prima dell’inchiesta “Acqua sporca” il responsabile tecnico di Sorical, Sergio De Marco, il quale stigmatizzava la paura dei cittadini bollandola come “bufala colossale” date le “centinaia di analisi che dimostrano la salubrità dell’Alaco”, non è di certo una via d’uscita gradita. A meno che non si voglia far passare la questione come un’esagerazione. O magari come una nuova leggenda.
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