In bilico tra diritti e privilegi
“Tutti in questo paese vanno in giro blaterando dei loro diritti: io ho diritto, tu non hai diritto, noi abbiamo diritto e loro no… Mi dispiace rovinarvi la festa ma non esistono cose chiamate “diritti”, ok? Li abbiamo inventati noi […] I diritti non sono tali se qualcuno può portarseli via, sono privilegi, privilegi temporanei. E se leggi i giornali anche male, sai che ogni anno la lista diventa sempre più corta”. Ho sempre trovato molto significative queste parole dell’irriverente comico americano George Carlin, contenute nel suo ultimo spettacolo andato in scena una decina di anni fa. Perché per quanto possano essere volutamente provocatorie, per quanto possano essere state pensate in un contesto molto lontano dal nostro, ci parlano di qualcosa che per certi tratti ci riguarda da vicino. Ho pensato immediatamente a questa frase ascoltando l’infelice sortita del ministro Fornero, secondo cui “il lavoro non è un diritto”, nella più totale noncuranza di un’affermazione incontrovertibile e di comprensione decisamente facile contenuta nell’art. 3 della Costituzione. Per quanto manchino (o dovrebbero mancare) sei mesi abbondanti alle elezioni che sanciranno l’era del post-Monti, i papabili contendenti sembrano avere ancora le idee molto confuse su numerosi punti di un possibile programma. Negli ultimi mesi abbiamo sentito spesso, nella dialettica della scena politica ma non solo, parlare di “diritti”. Diritti universali, diritti di categoria, diritti reclamati, diritti non concessi, e persino diritti che credevamo tali da fonte autorevole e che invece abbiamo scoperto non essere più tali.
E leggendo i giornali in queste settimane (“anche male”…) sentiamo sempre più parlare di “diritto al lavoro” e di “diritti civili”, e non è difficile immaginare che, nel bene e nel male, diventeranno be presto due armi elettorali. Credo sia totalmente superfluo mettersi a ragionare sullo status o meno di diritto quando si parla di lavoro. Se i padri costituenti lo hanno messo ben in vista, in cima alla Carta, non è per caso. Basta sapere che quando il lavoro regolare se ne va, viene sempre rimpiazzato da qualcos’altro. Quel che più lascia perplessi è constatare come la politica guardi da vicino certe questioni solo “a puntate”. C’è voluto che quaranta operai si chiudessero quattrocento metri sotto terra per venire a sapere che in Sardegna c’è una miniera che da decenni viene considerata antieconomica? C’è voluto che si arrivasse ad un nulla dalla chiusura perché i politici abbracciassero la questione con tanto animo da scendere anche loro in quella miniera? Quando si parla e ci si azzuffa sui “problemi del lavoro”, è come se tutti quelli che avrebbero dovuto progettare, testare ed installare un sistema antincendio, ora si stiano lamentando perché i pompieri non arrivano. Decine e decine drammatiche situazioni di aziende in crisi a cui assistiamo ogni giorno, e parliamo anche di realtà molto grandi, sono figlie del semplice calcolo, della logica del profitto. Ed ora è inevitabile chiedersi chi avrebbe dovuto vigilare sulle conseguenze di queste logiche, e chi lo farà veramente in futuro. E’ inevitabile chiedersi chi, davvero, restituirà al lavoro la dignità dei diritti senza farlo sprofondare, come sta facendo a velocità folle, nel girone dei privilegi.
Altro capitolo molto acceso, quello dei diritti delle coppie omosessuali. La cosa che più stupisce è che in questi giorni il dibattito sul tema non si stia consumando tra schieramenti opposti, ma all’interno degli stessi attori del centro-sinistra, che proprio non riescono a venire a capo della questione. Non ci sono riusciti in anni di governo e neanche ora sembrano più di tanto convinti ad affrontare la questione “senza se e senza ma”. La dice lunga, a tal proposito, lo scambio di opinioni sull’argomento che ha avuto luogo alla festa del Partito Democratico tra la Bindi e Vendola. Mentre il governatore pugliese rivendica il diritto di sposarsi per le persone dello stesso sesso, l’esponente del PD ribatte con fermezza che, qualora andassero il governo, regolarizzerebbero la posizione delle coppie di fatto, ma rimarrebbe tagliata fuori la questione dei matrimoni, che la Costituzione prevedrebbe fondati sull’unione di uomo e donna. Davvero? Nella Carta, l’unico riferimento alla natura “bisessuale” della famiglia è dato dalla menzione alla “prole” di quest’ultima. Cosa vuol dire, che le coppie di coniugi che non mettono al mondo figli non sono famiglie riconosciute e tutelate dallo Stato? Si potrebbe ribattere che probabilmente il legislatore del 1948 intendesse la famiglia come unione di uomo e donna. Ma resta il fatto che non lo si legge da nessuna parte. Solo nel Codice Civile, che pure non fa menzione sul sesso degli sposi, si parla di “marito e moglie”. Da più parti è stata sollevata questione di Costituzionalità riguardo questi articoli del Codice, con alterni risultati. Il 14 aprile 2010, la Corte Costituzionale ha respinto i ricorsoi sul giudizio di incostituzionalità sollevati in merito, in quanto “le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”. Il 15 marzo del 2012, però, una sentenza della Cassazione sembra segnare un’altra strada; esprimendosi in merito alla richiesta di una coppia omosessuale di veder riconosciuto anche in Italia un matrimonio contratto all’estero, i giudici hanno dichiarato che: “La coppia omosessuale è “titolare del diritto alla vita famigliare” come qualsiasi altra coppia coniugata formata da marito e moglie […]. I componenti della coppia omosessuale, conviventi in stabile relazione di fatto, se secondo la legislazione italiana non possono far valere né il diritto a contrarre matrimonio né il diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all’estero, tuttavia […] possono adire i giudici comuni per far valere, in presenza di specifiche situazioni, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”. E’ dalla politica, quindi, che deve arrivare una risposta, ed è assurdo che certa politica sembra sia sorda anche a recepire la domanda. Dando uno sguardo al resto d’Europa, l’Italia appare come un paese in cui la pienezza dei diritti civili sembra fare più fatica a trovar posto. In Olanda, ad esempio, il matrimonio omosessuale è riconosciuto dal 2001, in Belgio dal 2003, in Spagna dal 2005, in Norvegia e Svezia dal 2008, in Portogallo e Islanda dal 2010, in Danimarca dal 2012. Inoltre, Francia, Germania, Svizzera, Austria, Slovenia, Repubblica Ceca, Ungheria, Regno Unito, Irlanda e Finlandia riconoscono ogni tipo di unione civile. Cosa ci impedisce di mettere in atto un provvedimento di alta civiltà a costo completamente zero? Senza dubbio buone dosi di ipocrisia e di opportunismo. I diktat della Chiesa? Mi stupisce sempre quando qualcuno a sua volta si stupisce, dando eccessivo peso, che qualche esponente ecclesiastico lanci una “fatwa” verso la regolarizzazione delle unioni omosessuali. E’ la loro posizione, ed è una posizione che parla al mondo cattolico. Ma la politica dovrebbe agire nell’interesse non di alcuni cittadini, fossero anche la maggioranza, ma di tutti. E questo si – rammentiamolo anche alla Bindi – che è scritto in Costituzione. Per questo mi irrita quando sento dire che “con tutti i problemi che abbiamo, ci mettiamo a pensare ai diritti degli omosessuali”. Come se davvero una ripresa economica – ammesso che ci sia – possa prescindere dalla cura dei diritti della persona. A proposito di economia, è di queste ore la notizia che, in barba alle raccomandazioni dell’Europa, la Chiesa “rischia” di essere esente dall’imu per mancanza del decreto attuativo che traduca in realtà i buoni propositi di un governo che è forse in imbarazzo nel dover buttare i propri cittadini nella macelleria sociale mentre un’istituzione come la Chiesa finisce per risparmiare 600 milioni di tasse. Sarà una considerazione ingenua, ma in fin dei conti il riconoscimento dell’unione di due persone omosessuali dovrebbe essere visto come un privilegio, e l’esenzione dalle tasse di attività commerciali che sono sotto l’ombrello della Santa Sede, come un diritto intoccabile? Forse davvero abbiamo bisogno di qualche diritto in più, per tutti, e di qualche privilegio in meno, per qualcuno.