Avellino, sento odor di noccioline

E adesso, chi lo dice a Gerardo Carmine Gargiulo che il treno non c’è più. Gerardo Carmine suonava e partì da giovane per il nord, ebbe fortuna con le canzoni e ne scrisse anche per Ornella Vanoni, poi un
giorno dal suo estro venne fuori “Avellino express”. “Avellino, Avellino sento odor di noccioline quando il treno è in mezzo al cielo di Avellino”. Ricordava quando da studente prendeva la “littorina” per la città. Ora di treni ad Avellino non c’è più traccia, l’ultimo è partito alle 21,22 dell’8 settembre e non andava a Yuma, ma a Benevento. Per Foggia si cambia, gracchiavano una volta gli altoparlanti. Ora silenzio. La stazione è chiusa, sui binari cresce l’erba, sbarrati gli uffici. Di ferrovieri neppure l’ombra. Lungo i sottopassaggi non c’è anima viva. L’unico essere che vedi aggirarsi frastornato da tanta desolazione è Adriano, da secoli barbiere
ufficiale della ferrovia. Barba, capelli, shampoo e lozione scontati per i ferrovieri. Anche il bar vendeva le sfogliatelle a prezzi stracciati per macchinisti e capotreni. Tutto finito per decisione della Regione Campania e per l’indifferenza di Trenitalia. I rami secchi vanno tagliati, il trasporto su ferro punta su alte velocità e
reti metropolitane.
A nessuno interessa la linea per Rocchetta, meno che mai quella per Napoli, Salerno e Benevento. Finisce una storia iniziata 133 anni fa. Bene che vada la stazione potrà riaprire, dice la giunta regionale, ma a metà e con pochi treni in partenza.

Attraversare la stazione chiusa è come fare una via Crucis dentro l’abbandono del Sud, gli sprechi e gli imbrogli di eterne promesse. Vedi l’ingresso maestoso con l’orologio e la scritta “Avellino”, gli uffici e le case per i ferrovieri, i pannelli elettronici supertecnologici montati da pochi mesi, e ti ricordano che la vecchia
struttura resistette a lungo quando decisero di abbatterla una ventina di anni fa. “Non voleva andare giù”. Ne fu costruita una nuova con sale d’aspetto più larghe e finanche sottopassaggi. Nel 1965, il pittore Ettore de Conciliis volle che i ferrovieri prestassero il loro volto per le scene di massa del “Murale della pace” nella chiesa del quartiere. Ricordi di un altro mondo, belli e lontani. Tragici quelli che evoca il “binario della morte”. Chiamato così perché portava i treni all’Isochimica, una fabbrica che doveva liberare le carrozze dall’amianto. Per anni gli operai hanno maneggiato quel veleno senza protezioni e a mani nude. Molti sono morti, lentamente e nell’indifferenza di tutti, in tanti si sono ammalati. Il padrone della fabbrica era un ex ferroviere che negli anni Ottanta fece fortuna grazie ai suoi rapporti con i socialisti craxiani, sbarcò ad Avellino, comprò la squadra di calcio e la portò in serie A. Allo stadio regalava le tribune d’onore ai politici della città, era potente e poteva fare tutto. E tutti, magistrati e autorità sanitarie comprese, per anni chiusero gli occhi. Piero Mitrione, è un dirigente delle ferrovie in pensione. Attraversiamo insieme la stazione dove ha lavorato per anni. “Qui la nostalgia c’entra poco, parliamo di sviluppo e modernità. La Regione ha deciso di tagliare proprio nel momento in cui altrove si punta sul trasporto su ferro. Il treno per Benevento, che impiegava 35 minuti, è stato sostituito da pullman che impiegano un’ora e mezza. Altro che riapertura a metà, questa stazione può diventare il fulcro di una metropolitana regionale per Salerno e Napoli e i campus universitari. Hanno deciso di chiudere perché del Sud interno non frega più un tubo a nessuno. La stazione è una metafora della città. Avellino non parte più. E’ immobile”. Parole meste nella città una volta motore di un sistema di potere formidabile. Ciriaco De Mita, Nicola Mancino, Gerardo Bianco, Salverino De Vito. Il controllo del Partito, la Dc, il governo, i ministeri, la Rai e le banche: gli irpini a Roma erano dovunque. La grande politica nella capitale, nel collegio elettorale un potere foraggiato dalla spesa pubblica che ti accompagnava dalla culla alla bara. Tempi andati. Ora, a 84 anni, Ciriaco De Mita scrive libri e medita strategie politiche nel suo eremo di Nusco. Nicola Mancino è asserragliato nel suo bunker di Montefalcione a studiare protezioni e strategie difensive per salvarsi dall’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Il grande potere è finito. I soldi pure. Avellino è una eterna incompiuta. Vai verso il centro e ti colpisce la visione di un buco enorme, recintato e sorvegliato a vista dai vigili. E’ il tunnel che doveva collegare due parti della città. Fino ad oggi è costato 17 milioni. C’è solo la galleria di ingresso, manca quella di uscita. Il Mercatone, un’opera costruita trent’anni fa con i miliardi del dopo terremoto, è sempre al posto suo. Migliaia di metri cubi di abbandono: i filmati della sua inaugurazione ritraggono sorridenti De Mita e Mancino circondati da folle plaudenti. Anche i locali della ex Gil sono abbandonati. Soldi spesi per costruire un cinema già finito, sale riunioni già attrezzate.

Tutto distrutto dai vandali. Transenne al vecchio Palazzo della Dogana, uno degli ultimi monumenti della città ridotto ad un ammasso di macerie. Nel giro dell’abbandono mi fa da Cicerone lo scrittore e giallista Franco Festa. “Nessuno protesta, perché qui esprimere una opinione significa farsi dei nemici, mettere in discussione il proprio presente e il futuro dei figli. No, non esagero, il silenzio è l’unica arma per sopravvivere”. Ma la borghesia, gli intellettuali? Franco fa una smorfia. “Qui la borghesia è attenta solo a se stessa. Vanno a teatro e si indignano allo spettacolo del comico che le canta chiare alla politica, seguono la musica colta, ma è una borghesia vile, che non partecipa alla vita della città. Preferisce accomodarsi nei salotti che contano. Il vecchio sistema di De Mita e Mancino ha lasciato il posto al potere dei cloni, mezze tacche che fanno i deputati, i consiglieri regionali, gli assessori e che governano briciole di spesa pubblica. La città, anche di fronte allo sfregio della chiusura della stazione, non ha uno scatto di dignità. Alla fine tutti sperano di avere qualche boccone di quello che resta”.

(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 26 settembre 2012)