Un anno senza Cetta

È passato un anno. Il 20 agosto 2011 alle 19.00, una volante del Commissariato di polizia di Polistena arrivava nell’ospedale della cittadina della Piana di Gioia Tauro dove, circa 20 minuti prima, era giunta una donna deceduta a seguito di sospetta ingestione di acido muriatico. Questa persona si chiamava Maria Concetta Cacciola. Una ragazzina, poco più di 30 anni ma una vita spezzata in un pomeriggio come tanti, un destino diverso dalle sue coetanee, ogni sogno cancellato all’improvviso. Inutili sono stati i vari tentativi di rianimarla, la donna è arrivata in ospedale esanime e con assenza di polso. Parallelamente i sanitari consegnavano alla polizia una bottiglia di plastica di colore rosso, la cui etichetta era “Dat5 – acido muriatico”. La bottiglia era stata rinvenuta dai familiari della vittima nel luogo in cui era stata trovata in fin di vita. Nella sua casa, quella in cui viveva con i genitori, a Rosarno. Questa giovane donna, una esistenza negata, due figli da educare, è morta bevendo l’acido muriatico, una sostanza che ti devasta, che ti colpisce e ti annienta in una manciata di secondi. Quando è stato chiesto ai genitori quali fossero, secondo loro, i motivi che hanno indotto la giovane al suicidio, questi rispondevano chiarendo che il fatto era sicuramente da ricondurre alla scelta della figlia di collaborare con la giustizia. Il 26 maggio 2011, infatti, Cetta si era allontanata dalla casa di Rosarno, scegliendo la strada della collaborazione. I primi giorni dello scorso agosto, però, la ragazza aveva deciso di rientrare dalla località protetta in cui si trovava. Ma non poteva immaginare che i 20 giorni precedenti il suicidio sarebbero stati terribili. Non solo per quello che raccontavano i genitori e il fratello, Giuseppe (“era molto cambiata, era ingrassata, non parlava, si vergognava di uscire ed era caduta in depressione”); ma soprattutto per le pressioni fisiche (picchiata a tal punto da provocarle la rottura di una costola) e psicologiche che è stata costretta a subire da parte di una famiglia che nel cuore, più che l’amore per una figlia, sentiva l’amore per il rispetto e l’onore che la giovane aveva compromesso dal momento in cui aveva deciso di ribellarsi alla ‘ndrangheta, di denunciare e di dare un futuro diverso ai propri figli. Il 12 agosto aveva ritrattato, (poi è stato accertato che anche in questo caso la spinta è venuta dai genitori) spiegando che la sua scelta di collaborare era scaturita a seguito della mancata libertà che soffriva. In effetti, era stata costretta a sposare una persona che non amava. Un marito assente perché in carcere, un impegno da onorare quello del matrimonio. La donna da queste parti sempre donna è. Non può pensare di tradire il marito – specie in famiglie mafiose – senza generare disonore per questa. I genitori (Rosalba Anna Lazzaro e Michele Cacciola) durante gli interrogatori che sono seguiti alla morte della giovane, hanno continuato a dipingere la propria figlia come un soggetto confuso e depresso, facendo credere inoltre che fosse vittima del ricatto psicologico da parte degli inquirenti. Maria Concetta Cacciola è morta perché è stata vittima, sì, ma delle violenze dei suoi familiari che senza battere ciglio hanno continuato a difendere l’onore anche dopo la morte della figlia. “Hai fatto ….omicidio?….ah disgrazia mu…Inc..” (espressione calabrese usata per maledire qualcuno); queste le parole della madre nel tragitto in macchina nel primo tentativo dei genitori di riportare Maria Concetta a Rosarno. “non mi interessa niente, io lo so di essere stato disonorato”, proseguiva il padre. Il resto è cronaca già raccontata. La madre ha convinto Cetta, presa da mille dubbi e tanti ripensamenti, a tornare a Rosarno per riabbracciare i figli. Dopo è stata costretta a ritrattare, umiliata e tradita da una famiglia che non ha perdonato lo “sgarro”. È passato un anno, non passerà mai il ricordo del sacrificio di Cetta. Così come non passerà mai il ricordo del sacrificio di Rita Atria. Così come non passerà mai il ricordo del sacrificio dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a 20 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio. Non passerà il dolore e le immagini del sangue di tanti innocenti che per vivere una vita “normale” hanno perso la vita. “La verità vive”. La scritta sulla lapide di Rita Atria. Vive sempre. Perché, parafrasando Falcone: “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. Noi vogliamo credere che i tanti sacrifici a cui abbiamo assistito non siano stati vani. Vogliamo credere che il coraggio di queste donne e di questi uomini sia servito e serva alle generazioni che verranno.