Taranto: questione di vita o di morte
“Agli ispettori gli dobbiamo legare il culo alla sedia. Hai capito mo?”. Parla un dirigente dell’Ilva e detta gli ordini su come si devono comportare giù allo stabilimento quando arriveranno gli “ispettori”. I tecnici incaricati di misurare emissioni e veleni prodotti dal colosso dell’acciaio dove la salute della città, quella degli operai, quella della gente che vive, si ammala e muore nel quartiere Tamburi, “è stata sacrificata alla logica del profitto”.
Scrivono così i magistrati della procura tarantina che hanno arrestato Emilio Riva, suo figlio Nicola e sei manager dell’azienda, e che ieri hanno presentato al Tribunale del Riesame nuove carte. Intercettazioni e documenti di un’altra inchiesta che farà tremare la città e quella parte del potere succube dell’acciaio. Telefonate, contatti anche con tecnici che dovevano preparare i documenti per l’Aia, l’autorizzazione integrata ambientale, per conto del Ministero dell’Ambiente. Anche questa notizia soffia sul fuoco che avvampa la città. In 500 in serata si riuniscono a Tamburi sotto la chiesa di Gesù lavoratore. Organizzati dal comitato spontaneo che l’altro giorno ha interrotto la manifestazione dei sindacati. “Se i giudici confermeranno il sequestro degli impianti e gli operai faranno i blocchi stradali. Noi andremo a rimuoverli, costi quel che costi”. Il clima è pessimo. Taranto contro Taranto. Il Tribunale del Riesame è iniziato ieri, ma solo tra giorni deciderà se tenere ancora agli arresti domiciliari Riva padre e figlio, e soprattutto se confermare o meno il sequestro dell’area a caldo. Il palazzo di giustizia è blindato.
Sotto le finestre dei giudici un tabellone 6×6, “Noi siamo con gli operai e fieri della magistratura”, c’è scritto. Ma di mattina, all’Ilva, la scena è un’altra. Nei reparti c’è fermento, sul piazzale un pullman con il motore acceso è pronto a portare capi, capetti e operai sensibili ai loro desiderata, sotto gli uffici della procura per protestare. Altri operai sono pronti a bloccare la 106. Una telefonata del nuovo presidente dell’Ilva, Bruno Ferrante, ferma tutti. Dentro il gruppo genovese falchi e colombe stanno giocando una dura battaglia sulla pelle di una città sull’orlo di una crisi di nervi. Che non si calma neppure con le notizie che arrivano da Roma: c’è un decreto per Taranto e ci sono i soldi più di 336milioni. Sono sufficienti per risanare Tamburi, sono pochi per aiutare la città ad uscire dall’incubo? E’ un interrogativo che non scalda gli animi a Piazza Vittoria. Trecento persone espongono cartelli (“Non moriremo a norma di legge”), e sagome di morti di cancro. Sono riunite sotto sigle di vecchie associazioni ambientaliste e di movimenti nati in questi giorni.
“L’Ilva deve chiudere – urla in un megafono Rossella, una delle leader del Comitato donne per Taranto – basta veleni non vogliamo morire”. E le famiglie che vivono di pane e acciaio? “Non è un mio problema. Ci pensi lo Stato. Se la fabbrica uccide la devono chiudere, Taranto senza lavoro può essere ricostruita, senza salute muore”. Gli altri ritmano slogan contro i “sindacati complici”, e “gli operai che ieri hanno scioperato contro i magistrati”. Odiano tutta la politica. Demagogia, populismo? Facile avere il sospetto nella città che vent’anni fa acclamò sindaco Giancarlo Cito, il discusso capo di una tv locale. Tuonava contro la politica, Cito, ed era anche un “ambientalista”. Per denunciare l’inquinamento del Golfo si faceva grandi e plateali nuotate. A vedere come aggrediscono un ex parlamentare di Rifondazione comunista, Ciccio Voccoli, ex lavoratore Ilva, al grido di “assassino”, “cornuto vai via”, il dubbio cresce . Ma basta ascoltare quell’uomo disperato che parla della moglie morta a 28 anni di tumore, per capire che oltre alle parole sbagliate, c’è una ferita vera che lacera la città. “Taranto non ne può più e ormai ha maturato un sentimento di odio quasi irreversibile nei confronti dell’Ilva”.
Abbiamo chiesto aiuto allo storico e filosofo tarantino Pietro Nistri per orientarci nei dolori di questa comunità spaccata. “C’è un peccato originale all’origine di tutto: la svendita del territorio prima all’Italsider, poi all’Ilva. Solo così si può spiegare il dramma di un’area a caldo che si è coricata bocca a bocca con una parte della città. Con Tamburi, il quartiere dei morti viventi. Io li vedo i bambini calvi in giro. Qual è la soglia di compatibilità, come si vive nelle case coperte di polvere nera? E allora dico che abbiamo dato tutto per i soldi. Cosa volevano in cambio, prima la Marina Militare con l’Arsenale, poi le Partecipazioni statali e i grandi gruppi petroliferi, infine i Riva? La tacitazione delle coscienze. E oggi cos’è il lavoro a Taranto? Gli uomini vanno all’Ilva, le donne nei call center. E’ un ricatto demoniaco: devi scegliere come morire. Per questo, le giuro, sono stato contento nel vedere quell’Ape-Car fare irruzione in piazza al comizio dei sindacati. Erano operai dell’Ilva pure loro e hanno detto parole drammatiche ma chiare, finalmente”.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 4 agosto 2012)