Sulcis, ultimo atto

Nuraxi Figus, Gonnesa, cinquemila anime in provincia di Carbonia Iglesias, una delle più povere d’Italia. Un fazzoletto di Sardegna sud occidentale incastonato tra il mare e le miniere in cui sta andando in scena l’ultimo atto della tragedia grottesca che vede protagonisti, loro malgrado, i lavoratori di ogni realtà industriale di quella regione meravigliosa e disgraziata che è la Sardegna. A Gonnesa la Carbosulcis non è solo un’azienda, è un’istituzione. Un punto di riferimento per generazioni di lavoratori che sono scesi in quelle miniere. Quelle stesse miniere in cui si sono barricati 40 minatori, a 375 metri di profondità ed in compagnia, sembra, di 350 chili di esplosivo, per ribadire che non ci stanno a veder chiudere l’impresa in cui lavorano, unica in Italia nel settore delle estrazioni carbonifere, “senza colpo ferire”. Una protesta che ha il sapore amaro del coraggio, della disperazione e della dignità. Il polo di Porto Vesme, l’Alcoa, la Rockwool ed ora Carbosulcis: la fuga delle industrie dalla Sardegna non è un’ombra incombente, ma una drammatica realtà che crolla sulle teste di decine di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. La Sardegna è un’isola che sta affondando in un oceano di paradossi: depredata dalla politica, che ne ha diviso il territorio in un puzzle di province fini a se stesse ed alle poltrone che possono contenere, costellata di un patrimonio di unica bellezza che la percorre da nord a sud, eppure in corsa folle verso il baratro del fallimento. Una terra meravigliosa e dimenticata, abbandonata a se stessa. Che potrebbe avere tutto ed in cui non rimane niente. Il caso della Carbosulcis e della drammatica protesta che ha per protagonisti è emblematico in questo senso. Da più parti, in queste ore, si sente dire che da troppo tempo le attività estrattive in quella regione sono diventate anti economiche. La situazione è tale ormai da decenni. Si può ribattere che un’azienda non può sopravvivere artificialmente per mano dello Stato per un tempo indefinito. Giustissimo. Ma è altrettanto vero che, se non si inverte la rotta in maniera rapida e decisa, tra poco tempo i lavoratori sardi non avranno più nessuna speranza di collocarsi sul mercato dell’impiego. E non ci vuole molto a capire quali potrebbero essere le conseguenze, ma soprattutto servirà a poco, con il senno di poi, tentare di riparare. Il lavoro deve essere un diritto garantito dallo Stato proprio perché è la logica esclusiva del profitto che porta a situazioni di “vuoto” come quella in cui sta precipitando la Sardegna. Né va non solo di posti di lavoro, ma anche e soprattutto della “salute” del nostro tessuto sociale. C’è una bella differenza tra lo stato che “mantiene” i propri cittadini e quello che invece li aiuta a mantenersi. Per troppo tempo chi doveva vigilare ha guardato altrove. L’Ilva di Taranto né è un esempio lampante. Sono anni che si parla dei veleni che quell’industria rilascia su tutto il territorio circostante. Ora esplode il “caso” ed i lavoratori vengono messi davanti al dilemma che vede come alternativi i di diritti al lavoro ed alla salute. Quando un diritto non ha basi solide, diventa semplicemente un privilegio. E’ per questo che i minatori della Carbosulcis stanno protestando quattrocento metri sotto terra. Perché la loro regione è arrivata al capolinea, e si deve per forza cambiare treno. Il tempo degli annunci infiniti, dei politici in vetrina, e del sostentamento statale deve per forza di cose terminare. Ma è responsabilità dello Stato dare alla Sardegna la spinta giusta per ripartire sui binari della crescita. A tal proposito vale la pena raccontare una storia. C’era una volta, nello stato del Nord-Westfalia (Germania centrale) uno dei più grandi e moderni impianti estrattivi europei, lo Zollverein. Come accade a tutte le attività estrattive, nel 1993 anche questa efficientissima miniera divenne non più remunerativa. Ci si ritrovò con un immenso sito minerario fermo, centinaia di lavoratori a casa ed una vasta area naturale trasformata per sempre. Lasciare cosi le cose avrebbe significato il disastro. Lo Stato decide quindi di farsi carico della situazione e di dare allo Zollverein un nuovo destino. Sei anni dopo la chiusura, la miniera ed i relativi stabilimenti vengono trasformati in un area di archeologia industriale ed aperti al pubblico. Nel 2002 la miniera viene dichiarata Patrimonio dell’Unesco. Dal 2001 l’area circostante viene riqualificata, trasformandola in un parco naturale concluso nel 2010. Con un serio impegno da parte del settore pubblico, in Germania hanno trasformato una miniera in disuso in un sito Patrimonio dell’Unesco che da lavoro a centinaia di persone. A ben guardare, questa è vera logica del profitto.