Ilva, nella polveriera Taranto
Taranto è una polveriera pronta ad esplodere. Ma nessuno sa come disinnescare la miccia. In troppi stanno giocando con il destino delle 20mila famiglie che mangiano il pane amaro e avvelenato dell’acciaio. La politica, al governo e all’opposizione, non riesce a pronunciare parole credibili, la famiglia Riva e l’Ilva non dicono l’unica cosa che qui vogliono sentire. Quanti soldi sposteranno dalla voce profitti (2011, 9,5 miliardi di fatturato) sugli investimenti per liberare la città dal morbo di fumi e veleni. I sindacati, che dentro l’acciaieria organizzano a mala pena la metà degli operai, sono spaccati e impotenti di fronte alle tensioni. Sta parlando Maurizio Landini quando dalla piazza (della Vittoria, ironia della sorte) partono uova, pietre, fumogeni e urla. Il segretario della Fiom sta dicendo che “l’Ilva deve mettere nero su bianco quanto intende investire per avviare il risanamento dello stabilimento”, quando esplodono le contestazioni.
E’ finita così quella che doveva essere la giornata del riscatto di Taranto. Prima di Landini parlano i segretari di Uil e Cisl, Angeletti e Bonanni, ma solo quelle del segretario della Fiom sono parole nette e chiare sulle responsabilità dei Riva. Un uomo, superando un inesistente servizio d’ordine del sindacato e il rachitico sbarramento della polizia, sale sul palco e strappa i fili al microfono del sindacalista. Tra la folla, all’improvviso, compare una Ape-Car sulla quale c’è invece un potentissimo impianto di amplificazione. Chi sono? Cobas, Centri sociali, estremisti? Anche. Ma sono soprattutto operai. Quelli che la tessera del sindacato non l’hanno mai avuta o l’hanno strappata. “Venduti, servi di Riva. State uccidendo i nostri figli”. Uno di loro, Cataldo Ranieri, ex iscritto Fiom, ora alla Fim-Cisl, proclama che “la vera Taranto siamo noi. Avevamo chiesto di parlare ma i sindacati non ci hanno risposto. E allora siamo qui, più forti di loro”.
Il nuovo potenziale leader di una città disperata si galvanizza. Sul palco i sindacalisti non sanno che fare. I dirigenti di Cisl e Uil vanno via, uno speaker annuncia che la manifestazione continua ma in un’altra piazza. Non lo segue nessuno. Landini è attonito. “Non voglio fare dietrologie – ci dice – però è davvero singolare che mi hanno strappato il microfono proprio mentre denunciavo l’Ilva”. Ma la piazza, ormai, è dei duecento contestatori. “Abbiamo vinto – urlano – i sindacati non parlano più, la vera voce dei lavoratori siamo noi”. Le migliaia di operai scesi in sciopero, molti venuti alla manifestazione con famiglie e bimbi nel passeggino, non ci stanno. E’ un gioco al massacro sulla loro pelle e sul futuro dei loro figli. Si allontanano. Vanno via. Ancora una volta delusi, sconfitti e col cuore nero per un domani segnato dall’incertezza. Solo allora, con la piazza mezza vuota, occupata da telecamere e poliziotti, qualcuno trova un microfono per Susanna Camusso. La segretaria della Cgil parla dell’Ilva e dei Riva. “Vogliamo sapere dall’azienda quando inizia il piano degli investimenti per risanare. L’Ilva non può dire che la messa in sicurezza del parco minerali non si può fare”.
E’ la distesa di montagne di ferro grossa come dieci campi da calcio, che è la causa maggiore dell’inquinamento. All’estero, in altre fabbriche siderurgiche, hanno saputo affrontare la questione delle polveri sprigionate. Qui no, dal 2004 i Riva hanno rifiutato ogni intervento.
Taranto indifferente, con i negozi aperti, i cantieri edili al lavoro, gli uffici in funzione, e l’Ilva dove, nonostante lo sciopero, sono continuate le colate. Passa il corteo con gli operai che scandiscono slogan su diritto al lavoro e alla salute, e la città guarda. Distrattamente. “La verità – ci dice il segretario regionale della Cgil, Gianni Forte, che conosce bene l’acciaieria – è che Taranto sente la fabbrica come un corpo estraneo che non le appartiene”. Ma Taranto senza l’Ilva è morta. Il 75% del Pil provinciale e il 20 di quello dell’intera Puglia vengono vomitati dagli altiforni insieme alle colate. Eppure la città non ne può più. Ha dato per troppi anni all’Italia. A quella in divisa con l’Arsenale, a quella avida di petrolio per camminare e cemento per costruire, con raffinerie e cementifici. Il boom economico degli anni Sessanta aveva il portafogli a Milano e il cuore tra Cinecittà e via Veneto, ma le gambe di acciaio fatto qui, tra i due mari. In cambio ha ricevuto lavoro, certo, ma al prezzo di diossine, polveri sottili, veleni scaricati a mare.
Brutta giornata per Taranto. Che si conclude con parole e divisioni. I sindacati continuano a spaccarsi. Fim e Uilm accusano Landini di aver voluto parlare ad ogni costo. E Landini e la Cgil replicano. Il ministro Corrado Clini che da Bari prima annuncia un decreto legge, poi parla di “provvedimento d’urgenza” per rendere operativo il protocollo del 26 luglio”. Sì, risponde Nichi Vendola, il presidente della Regione, “ma si trasformi l’accordo sul ciclo di bonifiche in cantieri”. Bersani invoca “misure eccezionali”, Di Pietro invita l’ex prefetto Ferrante “a non perdere tempo in chiacchiere sul passato ed a presentare subito un pino per il risanamento”. Grillo dal suo blog se la ride per “i sindacati che non rappresentano più nessuno”. Mentre la città si prepara ad un’altra giornata di passione. Perché oggi il Tribunale del Riesame dovrà decidere se fermare l’Ilva o andare avanti.
(da Il Fatto Quotidiano del 3 agosto 2012)