Entry review
Ve lo ricordate? Erano gli inizi di maggio quando il governo lanciò su suo sito web un sondaggio per chiedere ai cittadini quali fossero a loro avviso – seguendo una moda d’oltremanica – le voci di spesa pubblica da sforbiciare in vista di una pesante revisione. Chiedere “alla pancia” della nazione quali siano le spese inutili dell’apparato statale è un atto che va molto vicino alla propaganda fine a sé stessa, non ci vuole molto per capirlo. Ed ora che il testo della spending review – attualmente al vaglio del Senato – inizia a prendere forma, non stupisce molto come le misure al varo facciano storcere il naso ai più. E scorrendo la lista di queste misure, ci sono alcune voci che fanno quasi pensare che più che una “revisione della spesa”, il governo Monti stia pensando ad un’altra “revisione dell’entrata”, una entry review, per dirla come va di moda. Non vedo dove sia la “revisione della spesa”, ad esempio, nella proposta di aumentare le tasse universitarie per tutti gli studenti iscritti, e non più solo per i fuoricorso. Una pratica, quella di far pagare di più gli studenti che “sforano” il piano di studi, già in uso presso più di un ateneo, che se vogliamo può anche trovare qualche giustificazione. Cosa che viene molto più difficile fare pensando agli aumenti trasversali che le università potranno applicare se la proposta diventasse legge: fino al 25% in più per gli studenti che dichiarano un reddito isee fino a 90 mila euro, percentuale che sale al 50% per un isee fino a 150 mila euro ed al 100% per i redditi familiari oltre tale soglia. E’ vero, non sono soglie bassissime. Ma dobbiamo considerare anche che, sulla carta, a guadagnare più di quella cifra sono solo 30 mila italiani. La cosa peggiore, in tutto ciò, è che a pagare questi aumenti saranno i “soliti noti” studenti figli di lavoratori dipendenti, o al più di lavoratori onesti che dichiarano quanto guadagnano. Chi evade, lo fa sempre due volte, e forse sarebbe più proficuo, nonché più equo, far pagare a tutti quanto dovuto.
Stessa cosa viene da pensare della misura che, qualora divenisse legge, consentirà alle regioni che devono scontare un grave deficit sanitario (Piemonte, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia) di aumentare le addizionali Irpef in anticipo di un anno (dal 2013, quindi) dal 0,5% all’1,1%. Dov’è la “revisione della spesa” in tutto ciò? E nella ventilata riduzione dei posti letto in ospedale? Siamo proprio sicuri che non ci sia nulla di più inutile da sforbiciare? Mi ha fatto un po’ sorridere leggere sui giornali di “austerity a Bankitalia”: tra i tagli che investiranno palazzo Kock, il limite di 7 euro per i buoni pasto, e la riduzione del 50% della spesa dedicata ad auto blu e buoni taxi. Cosa dire del tetto di 300 mila euro previsto per i compensi dei dirigenti pubblici? Se questa è austerity, cosa attende la famiglia media italiana?
L’impressione è che, se c’era da risparmiare su qualche spreco, in alcuni casi lo si è fatto con poco coraggio e con troppi compromessi. Voglio soffermarmi su un altro aspetto della questione, molto pesante in termini di consensi elettorali. In questi giorni, dal suo blog Beppe Grillo sta martellando duramente sulla questione dei finanziamenti pubblici ai giornali. Cosi come fa per la battaglia contro i finanziamenti pubblici ai partiti, il leader del M5S sostiene che, se c’è da tagliare pesantemente ed in maniera trasversale, questi capitoli sono tra i primi due da prendere in considerazione. Non c’è da stupirsi che simili dichiarazioni raccolgano consensi con assoluta facilità. Il discorso, a mio avviso, non è però semplice come lo si vorrebbe far apparire. I finanziamenti pubblici ai giornali sono previsti, forse non tutti lo sanno, nell’articolo 21 della Costituzione. Lo stesso articolo in cui i padri costituenti hanno voluto dare garanzia assoluta alla libertà di pensiero. Ci sono cose che possono stare sul mercato, ed altre che non possono. La cultura, l’informazione pluralista, i punti di vista originali e disinteressati non possono sopravvivere alle logiche del mercato, che vive momento per momento, che è facilmente influenzabile. Indubbiamente sessant’anni fa avevano troppa fiducia in quel mezzo meraviglioso e troppo spesso meravigliosamente manipolabile che è la stampa. Ma pensare che la libertà di pensiero, cosi come la democrazia, possano non avere un costo, è pura demagogia. Non è né demagogico, né populista, invece, sostenere che un giornale di partito non possa per nessun motivo costare ai contribuenti diversi euro per copia stampata. Non è né demagogico e né populista sostenere che è assurdo che i partiti possano avere in cassa decine e decine di milioni di euro, cosi tanti soldi che alla fine si perdono in mille rivoli scivolando nelle tasche di chi se ne appropria illecitamente con neanche troppa difficoltà. Sarebbe troppo difficile prendere un po’ di coraggio e trovare il giusto compromesso tra finanziamento pubblico e sostentamento indiscriminato? Certo, qualcuno potrebbe ribattere che tagliare su finanziamenti pubblici ai giornali ed ai partiti non porterebbe vantaggi apprezzabili in termini economici. Vero, probabilmente. Ma è altrettanto vero che porterebbe apprezzabili vantaggi da un punto di vista molto più importante: quello del buon esempio che uno Stato ed una classe dirigente danno ai propri cittadini.