Una rete per la gente di mare
(di Jana Cardinale)
Visita al Cie di Milo nel fine settimana (nell’ambito del progetto Boats4People, lanciato un anno fa da una coalizione di 17 organizzazioni di 7 paesi europei e africani che lottano per la tutela dei diritti dei migranti in mare), da parte di Anna Bucca, presidente dell’Arci Sicilia, un rappresentante della delegazione delle famiglie dei dispersi tunisini in Italia, la giornalista francese Carine Fouteau, il Senatore dei Radicali Marco Perduca, che torna nella struttura a distanza di un anno, e l’esponente di Radicali Palermo, Donatella Corleo. Il progetto è portato avanti, oltre che dall’Italia, esattamente da Francia, Germania, Olanda, Mali, Tunisia e Marocco, e si propone di lottare per la tutela dei diritti dei migranti in mare con diversi strumenti: il monitoraggio, attraverso le tecnologie esistenti, in collaborazione con la Goldsmith University di Londra e attraverso la costruzione di una rete di “gente di mare” sensibile alla tematica che operi come un sistema di allerta ‘militante’; il contenzioso giuridico (è stato presentato un esposto a Roma sulla questione dei dispersi e molti altri sono in preparazione) e diverse iniziative di informazione e sensibilizzazione. Il 2 luglio scorso, nell’ambito del 18° Meeting Internazionale Antirazzista, è partita da Rosignano una traversata del Mediterraneo (Rosignano – Palermo – Monastir – Lampedusa) a bordo della goletta Oloferne. A bordo c’erano rappresentanti delle associazioni, dei movimenti di migranti e di famiglie di dispersi, giornalisti, parlamentari e video-makers, mentre tra il 5 e il 7 luglio, la goletta, il suo equipaggio e numerosi attivisti internazionali, sono stati a Palermo per dedicarsi a varie attività, compresa anche la visita al Cie di Trapani Milo, che ha fatto seguito a quella effettuata ad aprile nell’ambito della campagna internazionale “Open Access Now!” e alle numerose testimonianze e informazioni raccolte rispetto alle condizioni di detenzione particolarmente dure, nonché alle violazioni dei diritti dei migranti detenuti (accesso alla difesa, diritto alla salute ecc.). L’iniziativa è stata fortemente voluta per rendere visibile anche a livello internazionale la situazione del Cie dove, sui 204 posti regolamentari, 184 sono occupati da tunisini e il sovraffollamento è di circa 30 persone. Ci sono presenze anche egiziane, marocchine, irachene, palestinesi, del Bangladesh, Ghana e Sri Lanka. “Al nostro arrivo era evidente lo stato d’agitazione con urla e tentativi di scavalcamento – ha evidenziato il Senatore Perduca – dopo la frenesia delle ore precedenti in cui si era verificata una fuga e un tentativo bloccato dagli agenti. I problemi immediati riguardano l’acqua da bere, che viene distribuita calda, a causa di alcuni lavori in corso nella tubatura guasta, e il cibo che arriva freddo, proveniente da un catering esterno. Non abbiamo visitato per intero i vari settori proprio per lo stato di tensione, ma ci siamo mossi intorno alle gabbie. Il centro è il più nuovo d’Italia – ha aggiunto – tuttavia dalla costruzione in sei mesi sono riuscite a fuggire 100 persone. Anche il personale è carente: nel Cie di Gradisca c’è un poliziotto ogni 2 ospiti, qui invece 1 ogni 10 e i problemi di sicurezza sono maggiori. La sovrappopolazione viene risolta con dei materassi aggiunti per terra e c’è qualcuno che ha anche dichiarato di trovarsi meglio al Serraino Vulpitta, centro adesso chiuso”. L’emergenza vera è dei tunisini, che in seguito alla legge Maroni dell’aprile del 2001 hanno la certezza del rimpatrio: 60 a settimana con voli charter da Palermo. Per ogni ospite del Centro attualmente la spesa giornaliera è di 27 euro e diversi provengono dalla carceri. “Ecco, questo passaggio andrebbe assolutamente evitato – continua Perduca – noi chiediamo che chi era già in Italia venga rimesso in società tramite una regolarizzazione e la possibilità di un lavoro legale così come proposto al Senato con un disegno di legge che ha già 70 firmatari e la prima è Emma Bonino. Il fenomeno riguarda mezzo milione di persone. Poi che il tutto non si continuasse ad affrontare con risposte emergenziali, ma fosse gestito in maniera diversa, con l’obbligo della convenzione di Ginevra”.