Italiani, vi tagliamo la gola.

Mons.Mogavero e i pescatori (le foto sono della Diocesi di Mazara del Vallo)

Terminate le operazioni di attracco alla banchina, conclusa l’ispezione a bordo del medico e delle autorità della Capitaneria, uno dei primi marinai a scendere a terra è Jiail, un tunisino. Si offre alle telecamere, ai fotografi a chi affolla la banchina del porto di Mazara andando incontro a tutti con le braccia alzate, spiegherà non era un segno di resa era per dire “eccomi di nuovo tra voi però senza più nulla di mio addosso”. “Sono arrivato tantissimi anni addietro qui a Mazara e nemmeno da clandestino, ho la doppia nazionalità, qui ho la mia famiglia, qui lavoro, stanotte torno a mettere piedi a Mazara come se fossi un clandestino, non ho niente più di mio, gli abiti me li hanno prestati quando siamo ripartiti da Bengasi, non ho più i documenti, i passaporti italiano e tunisino, con me avevo anche la tessera sanitaria di mia figlia, si sono presi pure questa. Non immaginavo che un giorno, anzi una notte, anche io qui avrei messo piede come un clandestino”.

Tra quelle parole si coglie la drammaticità dei momenti vissuti, una incredibile realtà che solo con il loro ritorno a Mazara si apprende, era stata tenuta nascosta per evitare ulteriori tensioni, una realtà che verrà fuori poco alla volta quando superata l’emozione degli abbracci con i familiari i marittimi cominceranno a raccontare: erano a bordo dell’”Antonio Serrato”, del “Boccia” e del “Maestrale”, i tre motopesca di Mazara sequestrati dai libici il 7 giugno e rilasciati meno di 72 ore addietro dopo il pagamento di salate ammende, 19 mila euro pochi giorni dopo il sequestro, altri 4 mila dinari per mollare gli ormeggi dal porto di Bengasi dove sono stati trattenuti, prima in carcere e poi a bordo. Al porto di Mazara sono arrivati nella serata di sabato 7 luglio, poco dopo le 21.30, la fine di una incredibile odissea. Il racconto. La tensione in mare la sera di quel 7 giugno si è fatta subito altissima, quando le tre imbarcazioni subiscono l’abbordaggio da parte di una piccola imbarcazione con a bordo alcuni libici. Possibile che in pochi, senza l’uso di una motovedetta, siano riusciti subito a sopraffarvi? Giovan Battista Armato è uno dei sette membri d’equipaggio del “Maestrale”. “Si – risponde – era un gruppo sparuto di soli cinque uomini su un barchino in legno di appena cinque metri con una scritta inneggiante alla liberazione. Cinque uomini senza alcuna divisa, ma armati fino ai denti. Sono sbucati dal nulla. Ho sentito come uno scoppiettio. Samir il mio compagno mi diceva rientra, rientra, non uscire e io invece continuavo a chiedergli cosa stesse accadendo. Rientra, rientra mi faceva. Poi sono uscito anche io e mi sono trovato davanti due uomini senza divisa, avevano i coltelli in bocca in mano avevano un fucile militare e attaccata alla cintola le bombe, non hanno parlato all’inizio hanno sparato. Una cinquantina di colpi, tre sono andati a finire lungo la fiancata del peschereccio, uno dentro. Ci hanno infine fatto capire di andare tutti a poppa e di seguirli fino a Bengasi”. Armato continua il suo racconto: “Intanto altri due uomini armati erano saliti sul Boccia e l’ultimo rimasto sul barchino si era messo davanti la poppa del Sirrato con la bomba in mano pronta a farla esplodere a bordo se non li seguiva. Siamo pescatori cosa dovevamo fare, li abbiamo seguiti”.

“Ho avuto paura anche io quando sono arrivati sul peschereccio, non avevano divisa ho pensato fossero pirati – dice Jiail – poi dopo un’ora ci hanno detto che erano militari. Hanno sparato 50 colpi per metterci paura”.“Abbiamo capito subito – racconta uno dei marittimi – che non erano militari ma qualcosa di diverso, pensiamo banditi, terroristi, si presentano a noi tenendo taglienti coltelli stretti tra i denti, come se fossero agguerriti pirati, qualcuno tiene alla cintola legate delle bombe, un altro tiene un kalasnikov”. Mentre parla mostra le ogive che tiene tra le mani. “Io stavo dentro la cabina di comando – racconta un altro marittimo – quando a prua è comparso un uomo che mi mostra una bomba che tiene in mano, mi fa capire che se non esco da dove mi trovavo me l’avrebbe lanciata”. Sotto le minacce i trasferimenti a Bengasi, al porto, “poi ci hanno legati con le braccia dietro la schiena e ci hanno fatto scendere a terra, ci hanno fatto sfilare, presentati come se eravamo dei trofei da esibire, al porto c’erano anche troupe televisive che ci riprendevano, e loro che alzavano i fucili in aria come se avessero preso chissà quale bottino, abbiamo visto in diretta le scene che nei giorni della rivolta in Libia avevamo visto in tv, solo che quelle esultanze con le armi in pugno erano dedicate a noi”. Poi l’arrivo in carcere, “siamo stati spogliati di tutto, siamo rimasti nudi, continuamente offesi, minacciati, si avvicinavano a noi ci facevano il segnale che ci avrebbero tagliato la gola. Siamo stati in mezzo alla sporcizia, vermi, pidocchi, siamo stati sei giorni e sei notti senza chiudere occhio per paura di essere uccisi.”. Tutto questo per uno sconfinamento, la Libia, quella di Gheddafi prima, e quella della “primavera” oggi, rivendica territorialità su una gran parte delle acque del Golfo della Sirte anche su quelle che per trattato risultano essere acque internazionali. Qui i motopesca di Mazara si spingono per venire a catturare il prezioso gambero rosso imperiale, una pesca a costo della vita e non tanto per dire. “Siamo stati trattati malissimo, dal primo giorno che ci hanno fermato, sino al rilascio. Un lungo mese di inferno e di umiliazioni”. E’ arrabbiato e amareggiato Francesco Di Giovanni, comandante dell'”Antonino Serrato”. “La sentenza del tribunale prevedeva solo un’ammenda – continua – invece ci hanno sequestrato le attrezzature da pesca, danni per decine di migliaia di euro. I miliziani ci hanno detto che volevano essere sicuri che saremmo andati subito a casa e che non ci saremmo rimessi a pescare. Un comportamento intollerabile”. “Abbiamo subito danni per 250 mila euro” dice Pino Russo comandante del “Boccia”. La costante presenza della diplomazia italiana, il lavoro del console a Tripoli, Guido De Sanctis, e del presidente del Cosvap, Giovanni Tumbiolo, presidente del distretto della pesca a Mazara, ha probabilmente evitato che ai pescatori potesse accadere ancora qualcosa di peggio. “La Libia oggi non è in mano a nessun governo, non esiste polizia e giustizia, tutto è controllato dalle milizie”. I pescatori parlano e viene da pensare quale libertà e quale democrazia ha consegnato l’operazione militare condotta per eliminare il sanguinario dittatore Gheddafi, oggi è come se la Libia sia in mano a tanti altri dittatori, come se la dittatura di Gheddafi durata per 42 anni continui con altri rais. A Mazara ad accogliere i pescatori c’era ancora Tumbiolo, il vescovo di Mazara Mogavero, si è notata l’assenza del sindaco della città, l’ex deputato di An ed ex presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, Nicola Cristaldi. «È una vicenda a lieto fine per la quale non possiamo che gioire – ha detto il Vescovo Mogavero – la mia presenza vuole dimostrare la vicinanza verso questa gente di mare che naviga questo Mediterraneo tra tantissimi rischi. Una semplice testimonianza di affetto nei loro confronti e delle loro famiglie e dei loro figli. Ora è giunta l’ora che si affronti definitivamente la questione delle acque territoriali nulla può essere lasciato più al caso». Martedì a Mazara arriverà il ministro Andrea Riccardi.