I boss contro il magistrato

I boss non ne possono più di quel magistrato che li sta mettendo con le spalle al muro. A loro e alla vasta schiera di politici culo e camicia con la ‘ndrangheta. Bisogna trovare una “soluzione”. E farlo presto. “Queste teste di cazzo non lo vogliono capire. A quello prima lo spariamo meglio è”. Siamo a metà giugno quando viene intercettata questa conversazione tra due personaggi della cosca Labate di Reggio Calabria. “Questo” è il giovane pm della Direzione distrettuale antimafia Giuseppe Lombardo. E “le teste di c..” sono quegli uomini della Cupola reggina da sempre contrari ad azioni eclatanti contro i magistrati. Intimidazioni, proiettili, avvertimenti sottili. Va bene tutto, ma un attentato no. Solo una volta la ‘ndrangheta ha ucciso un giudice, Antonino Scopelliti, il 9 agosto 1991, ma lo ha fatto per conto terzi. Oggi, però, è diverso, le parole pronunciate dagli uomini di una delle cosche più potenti della città – i Labate, padroni del quartiere Gebbione – fanno pensare ad una spaccatura all’interno della ‘ndrangheta tra chi punta ad azioni eclatanti, e chi invece vuole ancora mantenere un profilo basso, “pacifista”. I Labate odiano il pubblico ministero per la richiesta di condanna a 28 anni di carcere nei confronti di Pietro, il big-boss della cosca latitante da oltre un anno. La ‘ndrangheta tutta lo avversa per le sue inchieste su affari e politica. Lombardo ha la parte più rilevante dell’indagine che nei mesi scorsi ha coinvolto i vertici della Lega, quella che fa riferimento agli affari in odor di mafia dell’ex sottosegretario e tesoriere del partito di Bossi Francesco Belsito. Con l’operazione “Breakfast”, Lombardo e gli investigatori della Dia reggina hanno messo le mani sullo studio milanese dell’avvocato calabrese Bruno Mafrici, all’interno del quale, secondo le prime ipotesi investigative, circolerebbero tanto gli affari della politica leghista, che quelli del clan egemone della ‘ndrangheta reggina, i De Stefano. Il pm sotto tiro è anche l’autore, insieme ai carabinieri del Ros, della maxi inchiesta “Meta”, oggi già in fase processuale, che ha ricostruito gli assetti delle cosche reggine dopo le guerre di mafia degli anni Novanta. Condello, De Stefano, Libri, Tegano, Labate: i cartelli criminali dimenticano i morti e le stragi di quegli anni e si uniscono in una federazione che ha un solo obiettivo: la politica e il governo della spesa pubblica. Lombardo ha riscritto la mappa del potere mafioso in città e ridefinito l’elenco dei nuovi referenti politici della ‘ndrangheta. Da allora il magistrato ha ricevuto una serie di minacce di morte. Cinque almeno negli ultimi due anni . L’ultima in ordine di tempo, il 4 ottobre 2011. Nel cortile del palazzo che ospita gli uffici giudiziari venne fatto trovare un pacco bomba che conteneva le foto del pm e un messaggio: “E’ tutto pronto per la festa”. L’avvertimento era stato preceduto un mese prima dalla visita nell’ufficio del pm di un avvocato, Lorenzo Gatto, difensore di alcuni mafiosi che contano nel panorama criminale reggino. “Dottore, se io so dove abito e per andare a casa devo passare per una certa zona dove so che ci sono i fuochi d’artificio, per tornare a casa cambio strada”. Parole che a Reggio possono avere mille significati, e che l’avvocato, all’epoca interpellato da chi scrive, tradusse in questo modo: “Io non ho attinto notizie da ambienti criminali, stimo il dottor Lombardo e gli ho voluto rapresentare solo delle mie semplici deduzioni. Tutto qui”.
Le nuove minacce a Lombardo hanno allarmato carabinieri e polizia. Si parla di una relazione riservata sulle condizioni di sicurezza del magistrato già trasmessa al Viminale. Il pm vive in una zona della città non controllata da sistemi di videosorveglianza e molto esposta, con le macchine che rendono difficile un rapido ingresso al portone del palazzo dove abita, nei pressi del quale c’è un pub aperto per buona parte della notte. Il tutto avviene in una città sul ciglio del burrone. Finite le illusioni del “modello Reggio”, il Comune governato dal centrodestra rischia lo scioglimento per mafia. Le inchieste hanno accertato che dentro la Multiservizi, la più importante società municipalizzata, comandava la ‘ndrangheta, i Tegano in modo particolare, attraverso una serie di colletti bianchi. La cosca è stata da sempre attenta ai rapporti con la politica, come ha rivelato Antonio Moio, parente stretto dei Tegano. “Con la politica abbiamo sempre avuto ottimi rapporti”. In più c’è la situazione della Procura della repubblica, da troppo tempo senza vertice. Venti sono i candidati alla successione di Giuseppe Pignatone, ora capo della Procura di Roma, ma il Consiglio superiore della magistratura non ha ancora avviato le procedura per la nomina. Prende tempo, in una città dove due pezzi da novanta della ‘ndrangheta dicono che “quello va eliminato prima che fa altri danni”. Quello è un pubblico ministero.

(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 29 giugno 2012)