Ustica. L’orizzonte degli eventi/1
Quell’ultimo tramonto
Sono le 20.58 di venerdì 27 giugno 1980. Manca ormai circa un quarto d’ora all’arrivo a Punta Raisi del volo Itavia IH870 proveniente da Bologna, previsto per le 21:13. Il comandante Domenico Gatti ha da poco ricevuto dalla torre di controllo dello scalo palermitano le indicazioni di routine circa il vento, la pista, il cavok – acronimo che sta per “cloud and visibility ok”, ad indicare ottima visibilità – e la temperatura. Per il pilota còrso ed il suo secondo, il primo ufficiale romano Enzo Fontana, si sta per concludere un volo come tanti ai comandi del bireattore DC9.
Salvo le due ore di ritardo alla partenza, tutti i dati di volo ricalcano un copione collaudato: la velocità è di 323 nodi, la quota di circa 7630 m. Si procede senza imprevisti lungo l’aerovia civile – un’autostrada del cielo – Ambra 13, con buona pace del Tirreno che, molto più giù, si presenta agitato. L’atmosfera in cabina è distesa, nulla sembra impensierire i due esperti piloti che ingannano il tempo che precede le manovre di discesa scambiandosi battute. Gli altri due membri dell’equipaggio, gli assistenti di volo Paolo Morici e la sua seconda Rosa de Dominicis, si stanno prendendo cura dei settantasette passeggeri. Ai loro occhi la visuale esterna deve essere incantevole: il sole è ormai tramontato sulla destra, tuffandosi nel mare e tingendo di rosa ed arancione un orizzonte limpido e sgombro da nuvole in questa sera d’inizio estate. Uno spettacolo che stupirà soprattutto i tredici bambini presenti a bordo, molti dei quali stanno vivendo l’entusiasmante esperienza del primo volo.
Molti metri più in basso, i radar stanno tracciando il percorso dell’ aeromobile lungo una sequenza di plot che viene aggiornata ogni sei secondi. Alle 20.59.33, un nuovo puntino testimonia che il volo IH870 sta transitando sul braccio di mare che separa le isole di Ponza ed Ustica. Sei secondi dopo, alle 20.59.39, la traccia del DC9 Itavia scompare per sempre.
Da quel momento in poi, è cronaca. Una cronaca lunga tre decenni, fatta di sospetti, di ipotesi, testimonianze, diffamazioni e depistaggi veri o presunti. Una cronaca che dovremo aspettare ancora molto, se mai ci riusciremo, per archiviarla tra le pagine più nere della nostra storia recente. Chi, come e soprattutto perché: le domande, che come ferite si sono aperte quella notte, hanno attraversato indenni questi anni, cavalcando una vicenda giudiziaria dalle dimensioni imponenti: si stima che alla Strage di Ustica la magistratura italiana abbia dedicato migliaia di cartelle di atti per un milione e mezzo di pagine e circa trecento udienze processuali. E’ triste da dire, forse anche cinico, ma in ogni sistema giudiziario anche la verità – che pure è o dovrebbe essere un diritto innegabile di ciascuno – ha un costo. E chiunque la cerchi spende: in termini economici, certo, ma anche in termini di tempo, di concentrazione, di altre possibilità irrimediabilmente mancate, di salute. Per rendere un’idea di quanto siano state imponenti le indagini attorno a questo caso basta ricordare che, nel 1985, il giudice Bucarelli ed i periti giudiziari fanno volare un Dc-9 identico all’I-Tigi lungo l’aerovia Ambra 13 e farlo intercettare da un caccia militare.
Quando parliamo di fatti di cronaca, ed ancor più di cronaca nera, ci dimentichiamo che dietro ai disastri, dietro alle indagini, alle udienze, ai faldoni nelle aule dei tribunali, ai servizi mandati a ripetizione dai tg, alle cronache a nove colonne, dietro ai commenti degli osservatori casuali e prezzolati, ci sono delle persone. E se dovessimo ricordarcene, finiamo per interessarci al loro dolore, ai loro pensieri più torvi, alle loro vite distrutte. Più difficile interessarci al lavoro, all’impegno, alla dedizione di quanti si sono trovati ad essere loro malgrado protagonisti di uno dei più grandi casi giudiziari della storia d’Italia. Persone – come piace dire ai giornalisti – “normali”, che quella sera del 1980 sono state idealmente strappate alle loro vite e legate con un cappio indissolubile ad un destino comune.
L’impressione, a distanza di trentadue anni dalla Strage di Ustica, è che all’interno dell’opinione pubblica la verità – che da qualche parte esiste, e come vedremo in seguito è tutto fuorché avvolta dal totale mistero – si stia frantumando nella miriade di rivoli del “secondo me è andata cosi”. Forse per pigrizia, molto probabilmente per interesse, sicuramente perché a qualcuno fa comodo sia cosi, si sta perdendo di vista l’obiettivo primario. L’interesse che dovrebbe essere collettivo, di perseguire una verità che non deve stare a cuore solamente a quelle poche decine di persone che il 27 giugno 1980 hanno perso un genitore, un fratello, una figlia o un amico. La vittima eccellente di Ustica è il diritto di ciascuno di noi di poter leggere con sicurezza e fiducia la storia recente del Paese in cui vive. Quel diritto per cui, in tre decenni di storia italiana, si sono compiuti sforzi immani che non meritano di essere relegati all’oblio di qualche cronaca. La verità sulla Strage di Ustica non merita di essere degradata a qualcosa di cui dobbiamo convincerci perché ci piace o perché ci conviene. Non lo dobbiamo solo alle 81 persone che in quella strage hanno perso la vita, e non lo dobbiamo solo ai cari. Lo dobbiamo innanzitutto a noi stessi.
Forse, più che dai fatti, è necessario ora partire dalle persone. Dagli attori di questa storia lunga trentadue anni, da chi non ha avuto il privilegio di poter guardare questi fatti da una finestra magari virtuale, e di chiudere il sipario a proprio piacimento
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