Emilia terra vitale

Un capannone industriale,a Mirandola,distrutto dal terremoto
“Il terremoto ha colpito una terra moderna e vitale. Il Paese intero deve capire che l’Emilia non è più quella raccontata meravigliosamente nel bellissimo film di Bertolucci, Novecento. Quella è la nostra storia, da lì, dalle cascine e dalla mezzadria, siamo partiti, per arrivare all’oggi: una diffusione di piccole e medie aziende di produzioni ad alto valore tecnologico, che quotidianamente sono sul mercato mondiale a conquistarsi spazi”. Luigi Rossi, 52 anni, vicepresidente della Cna di Bologna, è un imprenditore emiliano, ha dieci dipendenti e produce tessuti e ricami di alta qualità.
Allora, signor Rossi, ci parli della sua Emilia.
“Tutta l’area colpita è sede di distretti industriali importanti. Qui c’è il primo polo europeo nel settore biomedicale, il secondo al mondo per importanza. Si produce di tutto, dalle valvole cardiache ai vari tipi di protesi, insomma, tutto ciò che serve a mandare avanti ospedali e centri di cura. C’è poi il distretto della meccanica di precisione che lavora per Ferrari, Fiat, Lamborghini, l’artigianato del tessile e della moda, Carpi con le ceramiche e l’intera filiera agro-alimentare. Abbiamo i silos a terra e c’è il raccolto, i frigoriferi distrutti e c’è la frutta da stoccare. Nel settore lattiero-caseario è un disastro, tutta la filiera del parmigiano rischia di essere compromessa insieme a quella dell’aceto balsamico. Ci sono aceterie vecchie di anni distrutte. Insomma, l’80% delle nostre imprese sono a terra. Lei li ha visti quei capannoni crollati, sotto ci sono macchinari preziosissimi che valgono più delle strutture, che vanno subito recuperati e messi in produzione”.
Per questa ragione avete costretto i lavoratori a tornare subito in fabbrica, nonostante i rischi di altre scosse? Ci sono stati morti e feriti.
“E’ una pagina dolorosissima, tragica. Sotto quei capannoni sono morti anche imprenditori, artigiani, padroni. Non abbiamo schiavizzato nessuno, nessuno è stato minacciato per tornare al lavoro. Dovete capire che nelle nostre imprese si vive gomito a gomito, operai e datori di lavoro, ci si conosce e tra di noi c’è grandissima solidarietà. Siamo tornati tutti nei nostri capannoni perché sappiamo che l’unica strada per non morire è riprendere subito a produrre”.
Quei capannoni, però, sono crollati, erano insicuri.
“Le potrei rispondere che la legge che obbliga a costruire con tecniche e modalità antisismiche è del 2005, e che i decreti attuativi sono arrivati anni dopo, ma non basta. Se ci sono stati errori chi ha sbagliato pagherà, la magistratura indaghi e colpisca, ma senza pregiudizi. Non siamo sfruttatori incoscienti, siamo piccoli imprenditori che la mattina si alzano all’alba insieme ai loro operai”.

Il paese di San Felice
Lei insiste nel dire che l’Italia deve capire cos’è l’Emilia, perché?
“Perché qui si concentra una ricchezza pari all’1% del pil nazionale, perché l’area colpita rappresenta il 28% del pil regionale, perché sono in ballo 35mila posti di lavoro e la tenuta di un territorio importante. Dobbiamo subito riprendere la produzione nel settore biomedicale, altrimenti le multinazionali ci strappano quote di lavoro, così nel settore tessile e della moda, dove vanno evasi subito gli ordini e le commesse acquisite nelle fiere internazionali. Il mercato mondiale non perdona e se ne frega della solidarietà”.
Che invece state avendo dal Paese?
“Guardi, l’altro giorno ho visto una tendopoli organizzata da volontari abruzzesi. Mi sono commosso. Ma anche tra di noi c’è tanta solidarietà, gli imprenditori che hanno capannoni disponibili stanno facendo lavorare i loro colleghi, altri hanno impiantato nei cortili delle fabbriche crollate delle tensostrutture per ricominciare a lavorare”.
E dallo Stato cosa vi aspettate?
“Che ci faccia vivere, che deleghi gli interventi a Regione e Comuni, che snellisca la burocrazia, che imponga alle banche l’applicazione di tassi più equi per gli interventi che dobbiamo fare. Non vogliamo soldi a fondo perduto, ma interventi seri. Noi ci siamo e vogliamo pedalare insieme allo Stato”.
Qual è il vostro incubo?
“Che finisca come in Abruzzo, che anche i nostri paesi diventino tante piccole l’Aquila”.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 3 giugno 2012)