E la chiamano antipolitica / 2
Distruggere la politica tradizionale “dal basso” è la soluzione ai suoi problemi o solo un’idea affascinante? La democrazia può vivere senza i partiti e galleggiare nel mare virtuale di internet? Oppure c’è bisogno che nuove forze, dal basso, si riapproprino di quegli spazi che la Costituzione gli garantisce e di cui la malapolitica (o antipolitica?) si è abusivamente appropriata?
Ci sono parole che hanno un significato che va ben oltre quello letterale. Ci sono parole perfettamente neutre che però portano con sé una forte carica di pensieri positivi, ed altre cariche di accezioni negative. Capire perché non si riesca più a pronunciare la parola “politica” senza storcere il naso è forse il primo passo da fare per poterle dare la dignità che le è stata sottratta. Forse la colpa non è della “politica”, né dei “partiti”, ma di chi vive al loro interno. Certo, è innegabile che la proposta di mettere una bomba (un ordigno metaforico, s’intende) alle fondamenta del sistema e farlo crollare portando con se i suoi protagonisti, è un’idea che ha un certo fascino ed una sicura presa sull’opinione pubblica. Ma è questa la vera strada da seguire per un cambiamento radicale ed al contempo concreto e duraturo? Ne parliamo con Luigi Pandolfi, giornalista e scrittore, autore di Crack Italia – La politica al tempo della crisi (ed. Laruffa).
Nell’introduzione al suo saggio parla dell’ “eredità incombente di Berlusconi”…quale eredità?
Il tema dell’ “eredità incombente” del berlusconismo è legato ad un discorso più complessivo sull’Italia di oggi. Anni ed anni di picconamento delle istituzioni repubblicane da parte di Berlusconi, ma anche della Lega Nord, hanno prodotto degli effetti devastanti sulla credibilità delle istituzioni, e sull’unità del Paese, se guardiamo agli effetti della politica secessionista della Lega. E’ questa l’eredità che ci è giunta: e con riguardo particolare a Berlusconi ed alla sua stagione mi riferisco all’uso che si è fatto delle istituzioni piegate ad esigenze di tipo personale ed anche per “fare fronte” alle incombenze giudiziarie che lo hanno riguardato.
Non possiamo parlare di antipolitica senza parlare del movimento di Beppe Grillo. Come cambia il M5S dopo il voto delle scorse amministrative?
Il M5S sta avendo dei riscontri nell’elettorato che credo siano superiori a qualsiasi aspettativa anche da parte loro. E sono riscontri che metteranno questo movimento davanti ad un bivio: fino ad oggi hanno raccontato questa “favola”, anche un po’ ipocrita, del movimento diverso rispetto agli altri partiti, discorso in parte fondato. Ma io penso che il movimento di Grillo, per come è strutturato attualmente, sia profondamente antidemocratico. Dietro l’ipocrisia del non essere un partito, del non avere uno statuto né una sede, propugna delle soluzioni per il nostro paese che sono pericolose. In prospettiva, questo movimento pensa ad una democrazia dove il cittadino, dietro lo schermo di un computer, dice “si” o “no” a questioni che gli vengono poste da entità impersonali, facendo venir meno la partecipazione ed il senso stesso della rappresentanza. Chiaramente, di fronte alla necessità di cimentarsi con il problema del governo, com’è accaduto a Parma, questo movimento dovrà fare i conti con la sua natura, perché poi determinate questioni non potranno essere più affrontate come è stato fatto fino ad oggi.
Quale futuro possiamo immaginare per il M5S, dato ormai dai sondaggi come seconda forza politica italiana?
Questo del M5S è un caso singolare. Credo che nel momento in cui imboccasse la strada del partito tradizionale verrebbe meno a quella che è la sua missione. Penso che questo movimento sia il prodotto di una crisi profonda che attraversa il Paese, una crisi che è economica e politica. Non credo però che questo movimento possa avere un “ciclo lungo” di sopravvivenza, almeno nelle forme in cui si è strutturato attualmente.
Chi paga, e caro, in questo momento sono i partiti tradizionali. L’espediente dei “listoni civici” potrebbe essere la soluzione per emanciparsi da questa pessima immagine?
Credo che alla radice del momento di difficoltà che stanno vivendo i partiti ci sia il fatto che la politica, e quindi i partiti rappresentanti il Parlamento, di fronte all’emergenza in cui si trova il paese, anziché assumersi le proprie responsabilità hanno abdicato alla loro funzione affidando la guida ad una giunta tecnica che non ha alcun mandato popolare ed elettorale. Questo spiega perché i cittadini sono sempre più propensi a fare i conti in tasca alla politica e chiedersi quanto guadagna chiunque abbia incarichi pubblici, perché in queste funzioni politiche vede sempre di più una sorta di inutilità, dovuta al fatto che la politica ha perso sia credibilità in termini di qualità della rappresentanza e della propria classe dirigente, ma anche perché ha abdicato alla funzione di assumersi le proprie responsabilità in termini di governo della situazione di emergenza che vive in questo momento l’Italia. Ora, di fronte a questa situazione c’è questo tentativo di compensare la crisi ed il calo di consensi attraverso l’espediente delle cosiddette liste civiche: potrebbe essere un modo per aggirare l’ostacolo, ma non credo risolverebbe alla radice il problema. Semmai c’è necessità di un rinnovamento della politica, dei partiti, della classe dirigente, ma soprattutto la politica deve dare di sé l’immagine di una forza capace di affrontare le questioni ed andare incontro alle esigenze dei cittadini.
Da dove può partire questa scintilla?
Il problema è questo: sperare in una autoriforma dei partiti è, a mio avviso, perdere tempo. Ma in una situazione difficile come quella che vive il Paese ci sono dei fermenti interessanti nella società, una ritrovata voglia di fare politica dal basso. Ciò è dimostrato dalla presenza e dalla vivacità di alcuni movimenti che nascono intorno a questioni vere come il lavoro e la precarietà. Credo che anche la politica in senso partitico potrà trovare giovamento da questo protagonismo che si riscontra nella società. Nell’articolo 49 è scritto che i cittadini concorrono a determinare la politica nazionale attraverso lo strumento dei partiti, però i partiti devono essere organizzazioni che fungano da strumento di organizzazione, di proiezione delle istanze che promanano dalla società, che garantiscano una effettiva partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Il contrario di quello che propugna Grillo ed il suo movimento: il non partito che non ha uno statuto e che ha come unica sede un sito internet a cui, per aderire, basta registrarsi. Apparentemente queste cose possono apparire innovative, oltre una vecchia concezione dell’agire, della rappresentanza e della partecipazione. Di fatto io credo che possano essere soluzioni molto rischiose per aprire le porte a nuove forme di autoritarismo e di chiusura degli spazio democratici. E’ una forma di partecipazione passiva quella che immagina e prefigura il M5S, che si sostanzia in questo navigare in un mondo virtuale senza avere reale potere decisionale. E’ inevitabile porsi una domanda: quando si tratterà di scegliere i candidati per le elezioni politiche – magari con questo sistema elettorale a liste bloccate – chi farà queste scelte, il non partito?
Quindi la rete non può essere la dimensione esclusiva in cui vive la democrazia?
La democrazia è partecipazione, e con questo intendo non il poter commentare un post su un social network o cliccare “mi piace”. Partecipazione è contribuire attivamente alle scelte, di un partito, di un movimento, di un’associazione politica, in maniera democratica. Ed a questo punto non ci sono altri strumenti dei partiti intesi tradizionalmente, purchè si tratti di partiti riformati, che esprimano qualità nella classe dirigente e che non abdichino alle responsabilità di governo.