Ustica. L’orizzonte degli eventi/3
La Strage di Ustica e la lite del pianerottolo
Se glielo chiedete molto probabilmente lui negherà, ma l’avvocato Daniele Osnato è un professionista che conosce il caso Ustica come poche altre persone possono vantarsi di fare. Attualmente, assiste 68 familiari di vittime della Strage nell’ambito del processo civile in corso a Palermo, che vede imputati i Ministeri della Difesa e dei Trasporti. “Questo processo – spiega l’avvocato – nasce proprio dal fallimento dei processi penali. In sede penale non si è riusciti a scovare la verità, sia attraverso la lunga ed articolatissima istruttoria che a suo tempo segui il giudice Rosario Priore, sia a seguito del dibattimento che ne conseguì, dove noi eravamo costituiti parte civile per cercare all’interno delle carte, sentendo i testimoni e quant’altro la verità dei fatti. Ma di fatto, in questa storia di Ustica come in altre storie tristemente famose, ci sono stati tanti e tali di quei depistaggi che non ci hanno fatto trovare niente. Ed allora proprio per questo abbiamo preso atto di questo fallimento del diritto alla verità nei confronti di ottantuno famiglie di cittadini italiani, trattati non come cittadini di serie B, ma di serie Z, ed a quel punto abbiamo preteso il risarcimento della negata verità, quel diritto di giustizia che dev’essere garantito ad ogni normale cittadino. Siamo cittadini come tutti gli altri, che hanno diritto innanzitutto ad avere la propria incolumità garantita nel corso di un volo civile, che senza avere nessuna colpa si vedono coinvolti in una guerra di missili ed aerei, di nascondimenti e di caccia militari al di sotto di quelli civili, ed abbiamo anche il diritto di sapere perché i nostri congiunti sono stati uccisi cosi barbaramente senza nessuna spiegazione e senza nessuna colpa”.
Il 10 settembre 2011 la terza sezione del tribunale civile di Palermo, presieduta dal giudice Paola Proto Pisani, condanna i Ministeri imputati ad un risarcimento di oltre cento milioni di euro nei confronti di 81 familiari delle vittime della Strage. Come si legge nella sentenza, si può ritenere “provato che l’incidente occorso al DC9 si sia verificato a causa di un intercettamento realizzato da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del DC9 viaggiavano parallelamente ad esso, di un velivolo militare precedentemente nascostosi nella scia del DC9 al fine di non essere rilevato dai radar, quale diretta conseguenza dell’esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l’aereo nascosto oppure di una quasi collisione verificatasi tra l’aereo nascosto ed il DC9”. Tra le responsabilità acclarate dei Ministeri della Difesa e del Trasporti non c’è solo quella per la mancata sicurezza di un volo civile, ma anche per l’occultamento e la distruzione degli elementi probatori che avrebbero potuto concorrere al raggiungimento della verità.
Volendo aprire una parentesi, in una sua recente dichiarazione l’avvocato Osnato pone in parallelo la Strage di Ustica con l’incidente della Costa Concordia, ravvisando in entrambi i casi una simile responsabilità da parte del Ministero dei Trasporti: “E’ un dejà-vu – mi spiega – nel senso che per chi come me o come altri operatori del diritto si è trovato a vivere la vicenda di Ustica, da osservatore esterno ho visto immediatamente che si sono innescati determinati meccanismi, dove accanto ai magistrati c’erano presenze in divisa di coloro che avrebbero avuto il dovere di controllare la sicurezza di quella navigazione. Nella storia di Ustica coloro che avevano il dovere di controllare e garantire la sicurezza poi sono stati coloro che hanno accompagnato per anni i magistrati depistandoli su altre indagini ed allontanandoli dalle realtà anche collegabili alle responsabilità dei controllori. Nella storia della Concordia, almeno per un osservatore esterno, sta succedendo la stessa cosa: noi abbiamo delle capitanerie di porto che seguono con dei radar il tragitto di queste grandi navi da crociera, e che quando si avvicinano al di là dei limiti invalicabili di distanza dalla costa dovrebbero intervenire. Se fossi stato io con una mia imbarcazione ad oltrepassare quei 200 metri, credo che nell’arco di tre minuti sarebbero uscite le motovedette per fermarmi, cosa che per la Concordia non è accaduta. Credo che si assista ancora una volta allo scaricabarile delle responsabilità: c’è un capitano, che certamente ha le sue gravissime responsabilità, che però poi diventa il capro espiatorio su cui buttare le responsabilità di un omesso controllo”. A questo punto mi vengono in mente le parole dell’ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, il generale Leonardo Tricarico, che a ridosso della sentenza civile del settembre 2011 ha commentato che “se passa il principio che, indipendentemente dalle cause di un fatto delittuoso e dall’accertamento delle responsabilità, lo Stato deve comunque risarcire un danno, allora lo Stato rischia di diventare una diligenza da assaltare”. “Magari fosse cosi – ribatte Osnato – non ad ogni incidente, ma in ogni strage in cui si è creato un occultamento ed un depistaggio di tale misura: mi riferisco a Piazza Fontana, come alla Strage di Bologna, come ad altre stragi di cui non si sono trovati i responsabili. Chi nasconde, chi occulta, chi fa il doppio gioco la deve pagare. E se quanto occultano e depistano lo possono fare perché sono dipendenti di un ministero, ne paga per il principio di immedesimazione organica il ministero stesso, che è il datore di lavoro: ma deve avere anche potere di controllo nei confronti di chi fa il doppiogiochista, di chi svende diritti dei cittadini per fare carriera”.
Chiedo a Francesco Pinocchio che valore abbia avuto, dopo trentuno anni, la sentenza civile.
“Quello della sentenza del processo civile – mi racconta – è stato per noi un giorno bellissimo. Quando l’avvocato Osnato mi ha chiamato per dirmi che avevamo vinto, non mi è neanche passato per la testa di chiedergli a quanto ammontassero i risarcimenti. Tra l’altro, non è stato bello vedere un procedimento come quello sulla Strage di Ustica in mezzo ad altri centoventi procedimenti civili, trattato alla stregua di un caso qualunque, come una lite condominiale. E per fortuna abbiamo trovato persone, come il giudice Proto Pisani, che hanno saputo leggere veramente nei nostri occhi quale fosse da sempre il nostro unico obiettivo: la verità. Per me le morti sono tutte morti, dal nonnino che muore a novantasei anni e il figlio lo piange perché ha perso il padre, ad un ragazzino che muore a dodici anni. Nella vita la morte ci sta, ma bisogna continuare a parlare di Ustica perché quando muore qualcuno che ti è caro e tu sai il motivo, ti rimane il dolore per la perdita ma te ne fai una ragione, in qualche modo metabolizzi. Noi invece abbiamo due cose: il dolore per la perdita e la rabbia che nasce dal non poter sapere il perché di tutto questo. La rabbia che cresce quando comprendi che c’è qualcuno che vuole mettere a tacere tutto secondo un piano ben studiato. E’ come se i nostri cari non fossero ancora morti, e continuano a chiederci ininterrottamente la verità. E’ questa voce che qualcuno vorrebbe soffocare nel silenzio. Ecco perché vogliamo, dobbiamo essere ancora protagonisti. Il giorno in cui ci sarà la verità conclamata se lei mi telefonerà probabilmente le chiederei di non parlare più di Ustica. Resterebbe il dolore privato che tale deve rimanere. Ma perché ora facciamo tutto questo: perché come associazione dei familiari stiamo diventando una piccola “coscienza” di questo Paese, perché la nostra domanda di giustizia – che è un diritto fondamentale – sia anche un pungolo per crescere tutti. Il giudice Priore l’ha detto più di una volta: se su quell’aereo ci fossero stati degli inglesi o dei francesi non dico il giorno dopo, ma la settimana dopo si sarebbe già chiuso tutto. Dobbiamo crescere come coscienza civile collettiva, e noi siamo testimoni e “pungolo” di questa crescita”.
“Questa sentenza – spiega Elisabetta Lachina – stabilisce la verità dei fatti! Il tribunale ha avuto modo di esaminare tutte le prove già emerse durante l’istruttoria del Giudice Rosario Priore e durante il processo penale di Corte d’Assise. L’analisi del tribunale è stata capillare e completa, il dibattito è durato tre anni durante i quali i ministeri convenuti in giudizio hanno avuto modo di difendersi, nulla è stato tralasciato. Questa è la verità che ci è stata ridata, ora mancano i nomi degli assassini”.
L’idea che rimane, però, è che moralmente gli stessi Ministeri che hanno subito delle condanne in sede civile siano essi stessi delle parti lese. Vittime di qualcuno che si è nascosto dietro lo scudo dell’istituzione. Chiedo all’avvocato Osnato cosa ne pensa: “Assolutamente si, lo sono. Però io spero, in termine a questo procedimento, qualora si sia confermata anche in sede di appello una responsabilità dei ministeri, che una Corte dei Conti sia compulsata per fare un’azione di responsabilità nei confronti di quei nomi che appaiono nelle sentenze penali e civili, e che sono poi gli autori responsabili dei depistaggi. Ci sono nomi e cognomi, abbiamo gli indirizzi, sappiamo dove abitano, sappiamo anche le misure delle straordinarie pensioni che percepiscono, molti hanno fatto anche carriera politica, molti hanno patrimoni enormi rispetto alle capacità economiche relative a quanto ufficialmente percepivano. Tutte persone di cui abbiamo nomi e cognomi. Qualora la corte d’appello dovesse confermare queste responsabilità, saranno coloro che dovranno pagare, e non i cittadini italiani. E’ un qualcosa che qualcuno mi ha riferito come battuta stizzosa che io, francamente, non condivido: in Italia c’è un sistema dove il ministero risponde, ma può in seguito fare un’azione di regresso nei confronti degli autori del fatto materiale ed illecito, e questo deve essere fatto”.
Un incrocio pericoloso e troppo trafficato
Quando alziamo gli occhi al cielo per seguire un aereo di linea di passaggio sulla nostra testa, alla sua quota di crociera – cioè lontano dalle fasi di decollo ed atterraggio – questo ci appare come un oggetto bianco più o meno minuscolo che lascia dietro di sé una lunghissima scia bianca. Idealmente, il “cielo” ci sembra uno spazio abbastanza grande per consentire di percorrerlo ad un numero virtualmente illimitato di aeromobili. E ci sembra decisamente inverosimile che due di essi possano scontrarsi andando in giro per uno spazio tanto vasto e sgombro di ostacoli. Nella realtà, le cose non sono cosi semplici. Volendo fare un discorso scevro da ogni tecnicismo, per volare un aereo di linea non ha bisogno solamente di stabilire una rotta – che in virtù della sua ripetitività viene depositata presso gli organi di controllo del traffico aereo con una certa periodicità – ma anche che il suo piano di volo segua dei percorsi tracciati nello spazio aereo. Delle “autostrade del cielo”, delle aerovie. Nel suo volo tra l’aeroporto Marconi di Bologna e il Falcone e Borsellino di Palermo, il volo Itavia IH870 avrebbe dovuto seguire due aerovie: l’Ambra 14, un corridoio largo una ventina di chilometri delimitato da alcuni radiofari a terra, fino alla Toscana, e da li l’aerovia civile Ambra 13, dritto fino a Punta Raisi.
La realtà, come mi spiega l’avvocato Osnato, non è però cosi semplice ed apparentemente tranquilla: “Tutto il sistema di controllo – un sistema gestito dal Ministero dei Trasporti ma affidato a quello della Difesa, da cui la doppia responsabilità – era perfettamente a conoscenza che ad altezza dell’isola di Ponza c’erano delle aerovie militari che intersecavano un’aerovia civile. Mi riferisco alla Delta Whisky 12, che era un’aerovia militare francese, che intersecava quella civile proprio nel punto definito “Condor”, laddove è esploso il DC9 dell’Itavia. Questo fatto si conosceva già da prima, e nessuno aveva posto alcun rimedio. Molti piloti delle agenzie civili si erano lamentati presso i centri di controllo dicendo di aver avuto intersecazioni pericolosissime ed a distanze molto ravvicinate, ma nessuno aveva adottato nessuna cautela. I centri radar avrebbero avuto poi l’obbligo di identificare ed impedire l’avvicinamento da parte di tracce sconosciute, che quella sera erano ben visibili tranne nella zona proprio del punto Condor. E’ un po’ come se in un’autostrada si consentisse ad un gregge di pecore di passare senza porre alcun rimedio”. Anche bloccare un’autostrada, però, è una manovra con le dovute precauzioni possibile, a partire dalla giusta vigilanza: “Invece la scelta fu diversa – prosegue Osnato – deresponsabilizzarsi, e creare una zona franca, una specie di cono d’ombra che ufficialmente non doveva rientrare nel controllo di nessun radar, cosicché crearono l’alibi di un radar che non potesse arrivare ad una tale distanza come controllo ufficiale. Ad ogni radar è affidata una zona, e quella zona non era affidata a nessuno, e ciò nonostante ci furono dei radar che arrivarono a vedere e registrare, ma sulla carta da capitolato era fuori dal controllo ufficiale: vedevano, ma non avrebbero potuto vedere, e quindi nulla riferirono”.
Cosa avrebbero potuto riferire i radar? La causa che ha portato l’I-Tigi sul fondo del Tirreno, ovviamente. “Esclusa – attraverso l’esame critico di cento e oltre documenti tecnici elaborati con intelligenza e vigore polemico da una schiera tra le migliori di specialisti nelle varie dottrine che son servite – con più che sufficiente certezza qualsiasi altra causa di caduta del velivolo – dall’improvviso cedimento strutturale all’altrettanto improvviso cedimento psichico dei piloti, dall’esplosione interna alla precipitazione di meteoriti o altre similari, parti di fantasie tanto fervide quanto inquinanti – resta il contesto esterno”. Nella sua sentenza-ordinanda, il giudice Priore è lapidario. Cosi come lo è il giudice Proto Pisani. E’ fuori da quell’aereo che va cercata la chiave della Strage di Ustica, è nello scenario di cui erano, o sarebbero dovuti essere, testimoni quei radar. E’ cronaca, e per giunta estremamente attuale, che il Tirreno sia un’aerea fortemente militarizzata. E quella sera non faceva eccezione, anzi. Oltre ai radar militari come Poggio Ballone, Licola, Marsala, erano di fonda diverse portaerei alleate. Per non parlare di altri “dettagli” come la presenza di un quadrireattore E-3A Sentry – un AWACS o per meglio dire, un “aereo radar” – che quella sera volò per circa due ore non lontano da Grosseto. Ed ancora, c’erano i Lockheed P3 partiti dalla base di Sigonella, o il Lockheed C-141 di passaggio lungo la costa tirrenica. Ma anche, come suggeriscono le perizie radaristiche, trenta aerei militari in transito nella zona dell’incidente dalle 17.30 alle 21.15 di quello stesso giorno e tutti a trasponder spento: nella sua prima versione dei fatti, l’ammiraglio James Flately parlo di un’esercitazione di aviazione marina, ed aggiunse che tutti i mezzi vennero raccolti da una portaerei. Ma gli alleati non erano i soli, in quel periodo, a girare in lungo ed in largo sul nostro spazio aereo. E’ accertato, infatti, che anche aerei militari libici attraversavano i nostri cieli per raggiungere la Jugoslavia, dove veniva assicurata manutenzione ai MIG ed ai Sukhoi sovietici. Basta aggiungere che dagli anni ’70 il 13% della Fiat era in mani libiche, tanto per fare un esempio. E che un modo affidabile di passare inosservati dagli occhi scrutatori dei radar è quello di volare sotto la “pancia” di un aereo con un piano di volo autorizzato. Un jet civile, ad esempio, e rimanere nel suo cono d’ombra. E gli elementi che ci permettono di dire che il DC9 non fosse solo quella sera sono più di uno: “La prova – spiega Osnato – ce l’abbiamo nei tracciati radar già a partire dall’altezza di Grosseto: questo ce lo dice il Politecnico di Torino, una serie di periti radaristici che sono stati nominati nel corso di questa lunga istruttoria che dura, sostanzialmente, da trentadue anni. Tra l’altro risulta che alcuni piloti di caccia italiani, mi riferisco a Mario Naldini ed Ivo Nutarelli, probabilmente videro questo aereo sotto il DC9 e lanciarono per due volte l’allarme generale. Purtroppo questa storia questi due piloti non ce la potranno più raccontare, perché moriranno otto anni dopo nell’incidente delle Freccie tricolore di Ramstein, in circostanze abbastanza atipiche”.
La sera del 27 giugno 1980, Ivo Nutarelli e Mario Naldini erano ai comandi di un TF-104 G biposto appartenente al 4° Stormo dell’Aeronautica Militare, di ritorno, insieme ad un allievo che volava su un F-104 monoposto, da un’esercitazione presso l’aeroporto di Verona-Villafranca. Durante l’avvicinamento alla base di Grosseto, i due aerei si trovano nei pressi del volo Itavia IH870. Sono le 20.04 quando, all’altezza di Firenze-Peretola, dal biposto con a bordo Nutarelli e Naldini, parte un segnale di allarme generale alla Difesa Aerea. Il codice dell’allarme è 73, che indica non un’emergenza riguardante il velivolo, ma un’emergenza generale. Come risulta dalla registrazione radar di Poggio Ballone, i piloti segnalarono il problema ed i controllori ottennero conferma del pericolo. “Una manovra – aggiunge l’avvocato Osnato che non si compie a cuor leggero, tenuto conto del fatto che hanno volutamente lanciato un allarme. Avrebbero potuto comunicarlo via radio, ma hanno ritenuto più prudente non farlo. Questo vuol dire che il pericolo era rappresentato da un fatto esterno, un fatto molto grave, un fatto che non volevano far capire di aver visto. Soprattutto ad un eventuale aereo inserito nella scia del DC9, che poteva avere le onde radio sintonizzate su quelle degli F-104 guidati da Naldini e Nutarelli. Credo che per loro che erano dei grandi piloti quella fu una scelta voluta, e tra l’altro reiterata. Qualcosa c’era, di fatto non ce lo potranno raccontare. Tutto sommato c’è il problema, perché questo volo sotto il DC9 è stato identificato dai tecnici radaristi, per cui se uno più uno fa due…”