Stato di solitudine
Ogni volta che c’è da raccontare un momento critico, ci sono delle espressioni di sicura presa. Ripetute a cantilena, saltano di titolo in titolo, di testata in testata, rimbalzano tra talk show, radio e blog. E diciamo la verità, chi le usa ed abusa spesso ci marcia anche sopra. “Stato assassino” è un’espressione che ha sempre avuto un suo che. Un tempo, forse, relegata ad ambienti molto “fuori dal giro”, ora inizia a strisciare anche su pagine meno equivoche. Ma soprattutto, inizia a far presa su ben altri strati della nostra società. Inizia a farsi strada una nuova e terribile idea nelle nostre coscienze. Lo dimostra il fatto che l’infelice uscita del Grillo nazionale, per cui – dovere di cronaca ripeterla – “La mafia non ha mai strangolato il proprio cliente, la mafia prende il pizzo al 10%. Qui siamo nella mafia che ha preso un’altra dimensione, strangola la propria vittima” non ha ricevuto dissensi unanimi, anzi. Due giorni fa Andrea Camilleri, ospite di Augias su Rai3, replicava con una grande dose di buon senso che a lui non risulta che lo Stato abbia mai praticato la lupara bianca o altre simili amenità. Eppure lo stesso Augias si stupiva di quanti messaggi di dissenso con il punto di vista dello scrittore arrivassero in trasmissione. Che a Beppe è sempre piaciuto “spararle” lo sappiamo tutti. Che l’entusiasmo di una campagna per delle amministrative che si preannunciano con il botto per il suo Movimento gli abbia eliminato i già pochi freni che teneva alla lingua è sotto gli occhi di tutti. Voglio sperare che il comico (ormai avviato sul viale della politica) non volesse sostenere il drammatico assunto che “la mafia fa meno vittime dello Stato”, quanto più lanciare una provocazione (qui sulla soglia del disgustoso) delle sue. Ma è preoccupante il consenso riscosso dall’idea che mette l’uno davanti all’altro lo Stato nelle vesti di carnefice, e il cittadino in quello di vittima. E’ preoccupante ed orribile pensare che l’entità che nasce e vive per e con gli stessi cittadini possa trasformarsi ai loro occhi in una macchina in grado di annientarli uno ad uno. E’ il segno che ormai qualcosa nelle nostre coscienze, nelle nostre certezze, nei nostri ideali, si è spezzato. Gesti come quello del piccolo imprenditore che ieri ha tenuto in ostaggio un impiegato dell’Agenzia delle entrate per un pomeriggio più che far riflettere il cervello, colpiscono al cuore. Perché quell’uomo è arrivato a compiere un gesto simile, cosi lontano dal nostro concetto di “normalità”, sotto il peso di una cartella esattoriale di meno di mille euro. Una cifra che forse avrebbe potuto rimediare in molti modi. Ingrassando ancora un altro po’ il già florido business dell’usura, ad esempio. Compiendo migliaia di attività illecite e redditizie. Lui però non è stato a questo gioco, ha compiuto un gesto assurdo e sicuramente sbagliato ma solo perché, in un modo o nell’altro, doveva farsi sentire. Doveva dire al mondo che non era colpa sua. Doveva, probabilmente, spezzare quel silenzio assordante che inizia a circondarti quando sprofondi in questi problemi. Quando il lavoro che sai fare e che ti piace inizia a scarseggiare, quando i soldi in fondo al conto sono sempre di meno, quando vorresti che il mese fosse di tre settimane anziché quattro, quando devi iniziare a dire di “no” non tanto a te stesso, quanto alle persone che ti sono care. Quando ti senti inutile e non sai cosa fare, chi possa aiutarti a riempire il vuoto che ti si è fatto attorno. Quando, in una situazione del genere, lo Stato a cui appartieni si materializza nell’unica forma di una cartella esattoriale, di una mora, di un ufficiale giudiziario, ti appare nella fisionomia di un carnefice. Un’entità distante ed esclusivamente maligna, a cui non vale più la pena di credere ed appartenere, ma solo da combattere. E’ forse cosi che si sono sentiti i mariti ed i compagni delle donne che questa mattina hanno sfilato in un corteo silenzioso e commosso per le vie di Bologna. Donne che hanno condiviso un pezzo di vita con uomini che la loro vita hanno deciso di buttarla via pur di non sentire il peso di questa crisi. Che silenziosamente se ne sono andati e che silenziosamente sono stati ricordati dalle loro vedove. Nelle terre cosiddette “di mafia” – ma esiste ormai in Italia una terra che non lo sia? – a uccidere più delle lupare è il silenzio che circonda il malaffare, e che gli offre terreno fertile. E questo le mafie lo sanno bene. Sanno uccidere dentro, prima che fuori, sanno farti annegare nel silenzio perché sono consapevoli che è quando nessuno può aiutarti, che sei più vulnerabile. Da quello che stiamo vivendo in questi giorni sta venendo fuori questo spaccato inquietante: sei vittima quando sei da solo, poco importa chi ti trovi a fronteggiare. Ed uno Stato democratico, proprio in quanto tale, questo non può permetterselo. Non può permettere che i propri cittadini – che ne costituiscono la linfa vitale – si sentano soli con i loro problemi. Non può permettersi di essere denigrato in questo modo solo perché è stato assimilato ad una politica che ha passato decenni ad ingrassare solo se stessa. Non può permettersi che i valori dell’unità, della solidarietà, della coesione sociale, vengano meno proprio adesso. Servisse anche segare (politicamente, via) le gambe ad un intera classe politica, uno Stato con il nostro non merita nemmeno per un istante di essere lontanamente paragonato, negli atteggiamenti e negli scopi, alla mafia. Perché la mafia, ricordiamocelo, è e rimane “una montagna di merda”, mentre lo Stato, dobbiamo tornare ad essere noi.