Violenza sessuale e inaccettabili interpretazioni garantiste
(di Gianfranco Dosi)
Nel 2009 una legge dello Stato aveva esteso agli imputati dei reati più gravi di violenza sessuale contro le donne e i minori la previsione della custodia in carcere anziché l’applicazione di misure di custodia cautelare fuori dal carcere quando sussistono forti indizi di colpevolezza. La legge rispondeva a un diffuso allarme sociale per l’aumento di stupri e aggressioni e non prevedeva l’applicazione di misure cautelari diverse e meno afflittive della custodia in carcere. Era stato un segnale molto forte di contrasto ai reati più odiosi di violenza contro le donne e contro i minori e al tempo stesso un significativo incoraggiamento a denunciare questi reati senza dover temere le conseguenze che derivano dal trovarsi l’autore di tali comportamenti a piede libero.
La Corte costituzionale ha subito però indebolito questa norma con una sentenza del 2010 (di cui fu relatore il giudice costituzionale avvocato penalista Frigo) imponendo ai giudici di verificare, prima di mandare in carcere gli autori delle violenze, se non vi siano elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Una interpretazione garantista verso gli imputati ma aberrante per le conseguenze nei confronti delle vittime.
Ora la Corte di Cassazione – con la sentenza 4377/2012 – si allinea a questa incredibile strategia della prudenza e dell’arrendismo, bocciando un’ordinanza del Tribunale del riesame di Roma che aveva confermato il carcere come unica misura applicabile per due imputati accusati di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una ragazza.
L’ufficio stampa della Corte di Cassazione si è affrettato a sdrammatizzare le conseguenze della decisione ma ha suscitato polemiche e scatenato critiche soprattutto da parte dei movimenti femminili che leggono l’interpretazione prudente dei giudici come una retromarcia rispetto alle intenzioni severe della legge del 2009.
Quindi da oggi il giudice dovrà sforzarsi di fare una prognosi futura – francamente di enorme difficoltà e di quasi assoluta arbitrarietà – cercando di motivare circa il fatto che le conseguenze cautelari non possono essere soddisfatte con misure diverse dal carcere.
L’interpretazione della legge non è, però, solo un compito dei giudici.
E’ mancato in questi anni un impegno politico a supporto della legge del 2009. E’ mancata una interpretazione coraggiosa nella letteratura giuridica. E’ mancata l’indignazione verso la linea della prudenza e del garantismo estremo. Ed è ora che il diritto penale si riappropri di una funzione, mai adeguatamente esplorata, di protezione della vittima e non solo di garanzia per l’imputato. L’assenza di una moderna vittimologia è il vero ritardo della cultura giuridica italiana.