Cetta, uccisa da una famiglia che non perdona
Questa è una storia di mafia e brutalità. Questa è la storia di Maria Concetta Cacciola, parente di mafiosi, moglie di un mafioso, figlia di un padre-padrone nelle cui vene scorre sangue di mafia, che ad un certo punto della sua vita decide di volare libera e chiede aiuto allo Stato. Diventa collaboratrice di giustizia, fa nomi, parla di fatti gravi, fa scoprire bunker scavati in quel Libano dei signori della guerra, i Pesce e i Bellocco, che è Rosarno. Ma lo Stato non capisce la sua debolezza, non la assiste, non la protegge fino in fondo. La lascia sola con i suoi tormenti, le minacce che la perseguitano, le vessazioni morali, le botte reali, i consigli interessati degli avvocati, la certezza che la “famiglia” non dimentica. Maria Concetta Cacciola cede, non ne può più: il 20 agosto scende nel garage di casa, rivede come in una sequenza veloce di un film tutta la sua vita. Ha 31 anni quando si fa mangiare il corpo da una bottiglia di acido muriatico. Suicidio, certifica l’autopsia. Quasi un omicidio, scrivono i magistrati della procura di Palmi, che ieri hanno arrestato il padre della donna, Michele, il fratello Giuseppe, e la madre. Tutti per i maltrattamenti inflitti a quella giovane donna per costringerla a ritrattare le “infamità” raccontate ai magistrati, fino ad indurla al suicidio. Una vita d’inferno, quella di Maria Concetta. Che a 13 anni conosce Salvatore Figliuzzi, un picciotto che aveva un sogno: imparentarsi con una grande famiglia di ‘ndrangheta, fidanzarsi con la nipote di don Gregorio Bellocco. Quando Maria Concetta ha 16 anni, i due fanno la “fuitina”. I parenti capiscono, il matrimonio si fa come si conviene a due figli della ‘ndrangheta. L’idillio finisce presto e diventa incubo. Un giorno il marito la picchia, le punta una pistola, lei vuole lasciarlo. Il padre è perentorio: “Questo è il tuo matrimonio e te lo tieni”. Maria abbassa la testa, ma quando nel 2002 arrestano il marito, cominciano a girare brutte voci su di lei. Ha un’amante, c’è scritto sulle lettere anonime che arrivano alla famiglia. E allora sono botte, pugni e calci in pancia, sul petto, fino a sfondarle le costole. Trattata peggio di una cagna, non la portano in ospedale, ma la fanno curare in casa da un medico “compiacente”, scrivono i magistrati. A maggio Maria Concetta non ne può più, lascia tutto, la famiglia, la mafia e i tre figli (due femmine di 16 e 7 anni e un maschietto di 7) e chiede aiuto allo Stato. Si fa testimone di giustizia, da una località protetta racconta tutto quello che sa. Da quel momento è sola. Da Cosenza la spostano a Bolzano, poi a Genova. E sempre riceve le pressioni della famiglia. Il 2 agosto il padre e la madre la vanno a prendere a Genova. “Tui hai una vita davanti – le dice il padre – stai con la tua famiglia. Ricordati che gente siamo. Io lo so di essere disonorato, ma tu non sai niente, tutto quello che hai detto non è vero”. Il giorno dopo, è il fratello Michele a parlare al telefono di Maria. “Lei cosa sa dell’omicidio, niente, questa coppola di cazzo. Troia lurida fa la bella vita…ormai l’hanno fatta collaboratrice”. La madre alla figlia: “O con loro (i magistrtati, ndr) o con noi devi stare”. “Mio padre ha due cuori – si confida Maria con una amica – la figlia o l’onore. E la famiglia queste cose non le perdona”. In una telefonata, la più bestiale, le fanno sentire il pianto di sua figlia. “Cetta, tu devi fare così (tornare a Rosarno, ndr), ma la senti tua figlia cosa sta facendo?”. Le microspie dei carabinieri registrano urla e pianti. Concetta torna a Rosarno, parla con i due avvocati imposti dalla famiglia, anche loro ora sotto indagine, registra un memoriale. “E’ da tre giorni che sono a casa mia, tra mia padre, mia madre i miei fratelli i miei figli ed ho riacquistato la serenità che cercavo. Vorrei essere lasciata in pace in futuro e non essere chiamata da nessuno”. Si conclude così, con questa frase suggerita dalla voce di una donna adulta. “Mio fratello è capace di qualsiasi cosa, anche di farmi sparire”, scrive Maria Concetta in un sms all’uomo che ama, un napoletano conosciuto grazie ad un social network. L’unico sprazzo di umanità in questa storia di uomini che si fanno bestie. Non ne può più di minacce e pressioni, decide di tornare a Rosarno. Il 20 agosto scende nel garage di casa e si uccide. Capisce che ha un solo modo per liberarsi dall’inferno della mafia”: morire.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano 10 febbraio 2012)
[…] Maria Concetta Cacciola, uccisa dal padre, dal fratello e dalla madre, costringendola a bere una bottiglia di acido muriatico.http://www.malitalia.it/2012/02/cettauccisa-da-una-famiglia-che-non-perdona/ […]