Blizzard in Irpinia
Bisaccia, Lacedonia, Aquilonia, Andretta. Sono i paesi dei contadini che, fazzoletto rosso al collo e forconi in mano, negli anni del secondo dopoguerra si rimpossessarono delle loro terre, occupandole, stanchi di essere sfruttati da padroni senza scrupoli. Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Calabritto, Senerchia, paesi che neanche si trovano sulla cartina geografica ma che 32 anni fa, il 26 novembre del 1980, tre giorni dopo il terremoto, finirono sotto i riflettori dell’informazione nazionale al grido della prima pagina de Il Mattino “Fate Presto”. Era ed è l’Irpinia, quella Alta che in questi giorni di emergenza neve conta danni e morti e non ce la fa più. Dieci giorni di Blizzard hanno piegato intere comunità, anziani prigionieri in casa senza medicinali, donne in preda alle doglie salvate dagli instancabili Vigili del Fuoco avellinesi che, con l’aiuto dei volontari di una Protezione civile sempre più ridotta all’osso, stanno evitando che l’emergenza si trasformi irrimediabilmente nel nuovo dramma irpino. Inutili gli appelli delle fasce tricolori ormai stremate che non riescono più a fronteggiare la situazione con i propri mezzi, perché spalare fino a quattro, cinque metri di neve, non è semplice. Vogliono l’esercito, ma l’esercito non arriva perché per il Governatore campano Stefano Caldoro “in quei paesi sono abituati alla neve e non c’è nessuna emergenza”. Neanche l’assessore regionale alla Protezione Civile, Edoardo Cosenza, dopo tre vertici con il Prefetto di Avellino, Ennio Blasco, ha ritenuto necessario l’invio di uomini e mezzi delle forze armate. Certo lui forse pecca di una poca conoscenza del vasto territorio irpino, ma la cosa singolare è che la decisione di bloccare l’esercito è stata presa di comune accordo con sua eccellenza il Prefetto, al quale forse basterebbe affacciarsi dal balcone di Palazzo di Governo per capire che se in pieno centro città ci sono oltre 50 centimetri di neve, in Alta Irpinia magari c’è davvero un problema. Eppure quei sindaci, che rientrerebbero nella categoria borgheziana dei “meridionali che non hanno voglia di spalare, così come di lavorare”, hanno fatto davvero il possibile. Singolare come in questo Paese cambino le cose: quando in passato (spesso ancora adesso) da Nusco si alzava la voce di un De Mita, ogni desiderio si realizzava. Oggi invece che da quello stesso comune altirpino arriva il grido di un De Mita stremato, che però di nome non fa Ciriaco, ma Giuseppe ed è il nipote “ribelle” diventato sindaco del Comune alle falde del Laceno, nessuno muove un dito. “Uno Stato dovrebbe prendersi cura dell’incolumità dei suoi cittadini. E’ giunto il momento di prenderlo a pedate. E io sono pronto a dimettermi, a riconsegnare la fascia tricolore a Napolitano. Perché non voglio essere semplice esattore di tasse che vengono richieste ai miei cittadini, che non si vedono ricambiati i dovuti servizi”. Questo ha detto Giuseppe, ma appunto non è Ciriaco e qui lo Stato latita di nuovo, dopo 32 anni.