Mario Francese

(di Claudia Benassai)
Correva l’anno 1976. Le lancette dell’orologio segnavano le 21.15. Mario Francese cronista di cronaca giudiziaria del Giornale di Sicilia stava rientrando a casa. Gli ultimi minuti della sua vita si sono consumati davanti casa sua. I passi per tornare a casa sono stati bruscamente interrotti da quattro colpi di pistola che lo hanno raggiunto alle spalle e lo hanno freddato con una tremenda lucidità. Ma chi era Mario Francese? Le sue cronache sono state definite coraggiose. La sua personalità quella di un lucido profeta: “La mafia è come una congregazione di mutua assistenza che ha suoi uomini in ogni struttura dell’apparato dello Stato e della società dove li infiltra, nell’apparente rispetto della legalità, per ricavarne vantaggi puntando sulla corruzione, sull’omertà, sul rispetto. Attraverso il suo sviluppo, la mafia ha fornito negli anni possibilità di lavoro illegale o legalizzato, solidarietà, assistenza, collaborazione in ogni iniziativa le cui finalità non sono in contrasto con i principi dell’”organizzazione”. Queste parole sono state impresse su carta in un periodo nel quale per la mancanza di collaboratori di giustizia il ritratto della mafia non era solo oscuro, ma era anche accompagnato da una cappa plumbea. Ed è così che una voce solitaria e coraggiosa tesse le fila della storia stragista della mafia corleonese. La Cosa Nostra che alza la posta in gioco, elimina i rivali, inaugura sequestri e punta al controllo degli appalti pubblici, nel clima desolante della ricostruzione del Belice, che mette in gioco una “ballata di miliardi” e tutta l’invettiva di Totò Riina che con orchestrazioni ricche di complicità e connivenze corre verso l’arricchimento lasciando non solo una scia di distruzione e morte ma anche la puzza del compromesso morale. Intanto mentre i pezzi battuti e picchiati sulla macchina da scrivere si sono fermati a trentasei anni fa e lo spessore professionale di un giornalista è rimasto intrappolato tra le maglie di una giustizia che è arrivata troppo tardi, resta però l’essenza del giornalismo che traspare dalla parola audace e battagliera di un uomo che si è identificato perfettamente con la missione del giornalismo: cercando, raccontando, ricostruendo storie che solo in un tempo troppo lontano per lui, si sarebbero rivelate dirompenti e travolgenti agli occhi della società civile. In particolare, ancor di più importanti, per chi si affaccia timidamente nel mondo dell’informazione, in cui ti raccontano che tutto è precario e succube di un’informazione aleatoria, sensazionalistica, fast food. dove il piglio critico è eluso da notizie frammentate, divise anni luce dalle ricostruzioni attente tipiche del filatelico Mario Francese che hanno gettato lustro al giornalismo, servendo solo il principio di una stampa libera, curiosa, attenta, scevra da condizionamenti e sudditanza. Le storie offerte al lettore da Mario Francese, oggi come allora, sono quasi assenti dalla stampa, riaffiorano grazie all’impegno di professionisti dell’informazione, anonimi, precari, minacciati. Quindi restano gli ideali che sono perseguiti dai precari dell’informazione che anche se inglobati nella macchina veloce della stampa guardano alla tensione morale di giornalisti come lui. Giornalista con la schiena dritta. Giornalista che ha consumato la suola da scarpe tra i palazzi di giustizia e le realtà di una Sicilia che allora moriva tra taciti accomodamenti e terribili stragi, malvisto dai mafiosi che lo definivano “cornuto”e lo etichettavano come nemico dei mafiosi. L’auspicio oggi è che al silenzio della mafia, non corrisponda il silenzio sulle vittime di mafia.