Politici, boss e toghe: il vero potere di Reggio
La “brodaglia”. La chiama così lo scrittore calabrese Mimmo Gangemi quell’acqua torbida dentro la quale navigano mafiosi, magistrati, colonnelli dei carabinieri, faccendieri e spioni, consiglieri regionali, deputati e finanche ministri della Repubblica. E’ il brodo primordiale della ‘ndrangheta, il suo ambiente naturale, il nutrimento che ha consentito nel corso di pochi anni a boss di montagna di diventare presidenti della più grande holding criminal-politica presente su tutto il territorio italiano. E allora conviene tuffarsi nella “brodaglia” e raccontarla, così come ce la rappresenta la poderosa inchiesta sul clan Lampada della Procura distrettuale antimafia di Milano.
Iniziando dalla politica e da Francesco Morelli. Un insaziabile, la dimostrazione vivente di come in Calabria solo il rapporto colo potere (politico e mafioso) può garantire una rapida e strepitosa scalata sociale. Morelli inizia come dipendente della Sip, poi si avvicina ad uno dei potenti calabresi degli anni Settanta del secolo scorso, Riccardo Misasi, sinistra Dc, nel 1991 diventa dirigente di una società del gruppo Iri, nel ’95 manager Telecom, nel 2000 Giuseppe Charavalloti, predente della giunta regionale calabrese, lo nomina superdirigente. Conosce Gianni Alemanno del quale diviene strettissimo collaboratore e conquista poltrone anche nella Capitale (Fondazione Cassa di Risparmio di Roma, Commissario straordinario Unire), fino all’ultimo regalo dell’amico Gianni: membro del cda di Tecno-polo spa, una delle più grandi società del Comune. Ma Morelli aveva un cruccio, aver contribuito con una barca di voti al successo di Peppe Scopelliti alle ultime elezioni, e non essere stato nominato assessore. Per questo perde la testa quando sente voci su una sua esclusione. Siamo nell’aprile 2010 e lo chiama Alemanno: “Mi dice La Russa che nella lista mandata a Scopelliti per gli assessori il tuo nome non ci sarebbe”. In fatti non c’è. Sul conto di Morelli girano voci di inchieste antimafia, pesa il suo coinvolgimento nell’inchiesta Why Not. Ma quello che spaventa di più il politico in società con i Lampada, è la guerra che gli hanno scatenato i Gentile. Sono i potentati calabresi che entrano in collisione. A Cosenza i fratelli Gentile sono una potenza, Tonino all’epoca è senatore e membro dell’Antimafia, suo fratello Pino è consigliere regionale e prossimo assessore, la figlia di quest’ultimo è vicesindaco di Cosenza. Si spaventa a tal punto, Morelli, che chiede al suo amico giudice Vincenzo Giuseppe Giglio di informarsi se ci sono inchieste a carico suo. Il giudice obbedisce. Ma a rassicurare il nostro che nessuna ombra potrà fermare la sua ascesa politica è Gianni Alemanno. Il sindaco di Roma, che oggi scarica pilatescamente Morelli, il 6 maggio lo chiama: “Ieri sera sono finalmente riuscito a parlare a quattr’occhi con Scopelliti, dice che chiude con la Commissione Bilancio per te, fra un anno ci sarebbe il rimpasto…si aprirebbe lo spazio per il tuo assessorato. Prenditi sta presidenza di Commissione, io faccio queste verifiche mi faccio associare da Gasparri e da La Russa e al primo rimpasto risolviamo”. Il rimpasto della giunta regionale doveva esserci in questi giorni, Morelli sarebbe diventato assessore. Con l’appoggio di Alemanno, la mediazione di La Russa e Gasparri e l’ok finale del governatore Scopelliti. Lo hanno fermato i pm di Milano. Oggi nell’ambiente politico calabrese in tanti fanno finta di non conoscere Morelli, gli stessi che si mobilitarono per nominare la moglie del magistrato Giglio, prima al comando della Asp di Vibo, poi ai vertici della burocrazia regionale. E’ Luigi Fedele, potente capogruppo del Pdl, “la figura fondamentale” per risolvere il problema. La moglie del magistrato è una sua grande elettrice, si stringono rapporti davanti “a un buon piatto di maccheroni”, come nelle migliori tradizioni calabresi. Il magistrato pressa Morelli con sms, la signora pretende un posto da dirigente (“ci possiamo riuscire o stiamo chiedendo troppo? Un marito stressato”), e alla fine la nomina arriva. “Grazie, so bene che chiunque volesse prendersi il merito, è a te solo che devo gratitudine”, scrive, finalmente rilassato, l’intransigente toga antimafia.
Ma nella “brodaglia” sguazzano anche altri giudici. Talpe, le chiama la pm Ilda Boccassini, non solo in Calabria. Ci sono “lavori in corso”, chiarisce il magistrato, “anche sul nostro territorio”. E si è alla ricerca delle “talpe”anche negli uffici di Roma, Catanzaro, Reggio Calabria. “A Catanzaro – dice Giulio Lampada all’avvocato Minasi – stanno facendo solo un controllo sul discorso del riciclaggio”. Anche l’onorevole aveva buoni contatti nelle procure calabresi per accertarsi dell’esistenza di indagini a carico dei Lampada. Ma ora a tremare sono i funzionari e i magistrati infedeli e chiacchieroni della procura di Catanzaro. Toghe che sguazzano nella “brodaglia” e che ai potenti della politica chiedono favori, protezioni, appoggi per le carriere di congiunti.
Nelle acque torbide del potere calabrese nuotano spioni e ufficiali border-line. Esiste e chi è “il colonnello del Ros dei carabinieri di Reggio”, di cui si parla in una intercettazione del 17 marzo 2010, tra l’avvocato Minasi e uno dei Lampada? Lo chiamano “amico”, di più, “socio”, del papà di un giovane legato alla combriccola, tanto che passerebbe informazioni sull’inchiesta. E perché Vincenzo Giglio, medico e politico di Reggio, si rivolge al capocentro dell’Aisi (ex Sisde) per chiedere notizie sulle indagini a carico dei Lampada? Perché nella “brodaglia” a Reggio nuotano tutti.