Orfani del boss

Lo hanno preso nella sua “tana”. Hanno dovuto scavare 9 ore, frantumare pareti spesse di cemento armato usando martelli pneumatici. Alla fine Michele Zagaria, “Capastorta”, ultimo capo del clan dei Casalesi, ha ceduto. “Songh’io, sono Michele Zagaria, non scavate più”. E dopo sedici anni di latitanza, la mente economica della camorra più forte, si è lasciata ammanettare dagli uomini delle Squadre Mobili di Napoli e Caserta e dai “cacciatori” dello Sco ed è sfilato a testa bassa di fronte ai poliziotti che da anni gli davano la caccia. Il blitz è scattato martedì, alle 3 di notte. A quell’ora anche a Casapesenna, il paese dove Zagaria è stato scovato, avevano visto le rassegne stampa con l’ultima operazione contro i colletti bianchi del clan e i loro protettori politici. Titoloni di prima sulla nuova richiesta di arresto per l’onorevole Nicola Cosentino, ritenuto dalle inchieste dell’Antimafia di Napoli, il referente politico nazionale del clan. Anche Michele Capastorta aveva visto i telegiornali agitandosi nervosamente nella sua tana. Un bunker scavato a 4 metri di profondità sotto terra. Dentro un arredamento scarno, video per controllare i movimenti all’esterno, un televisore per tenersi in contatto col mondo, un letto matrimoniale – insieme a Zagaria è stata arrestata anche la moglie –  qualche divano. Su un tavolino i libri del magistrato Raffaele Cantone e “L’Impero”, la storia dei casalesi raccontata dal giornalista Gigi di Fiore. “Eravamo sicuri di trovarlo lì, avevamo informazioni certe”, ci dice uno dei “cacciatori” della Mobile di Caserta. Un vicolo di Casapesenna, vico Pietro Mascagni, dove però non vi è traccia di sinfonie e melodie. La strada è stretta, due file di case, tutte con i cancelli di ferro alti e le telecamere a filmare la strada, dietro le inferriate i cani che ringhiano. Sono così le case-bunker del triangolo della camorra: Casapesenna, Casaldiprincipe e San Ciprinao D’Aversa. Quando finalmente i poliziotti hanno abbattuto l’ultimo muro, il volto dell’uomo che si sono trovati di fronte aveva poco del grande capo di camorra. Il boss è invecchiato, porta gli occhiali, i capelli grigi, la mano tremante. “Zagaria è finita, come diceva il mio maestro Franco Roberti, è finita davvero”, queste le prime parole che ha sentito Michele Capastorta. A pronunciarle il pm Catello Maresca. “Dottò, avete ragione, mo è finita davvero. Ha vinto lo Stato”.

Decine di persone lo hanno visto sconfitto, accovacciato nella volante della polizia che a sirene spiegate lo ha portato via dal vicolo verso la questura di Caserta e poi a Napoli. Tanti hanno applaudito, i poliziotti si sono abbracciati, ma molti altri a Casapesenna hanno abbassato gli occhi. Qualcuno ha voluto dire davanti a tutti, giornalisti e “sbirri”, da che parte stava. “Vuie nun site nisciuno”, non siete nessuno ha urlato un uomo che abita a pochi passi dalla villetta-bunker dove è stato catturato il boss. “Miché la Madonna ti deve benedire per quello che hai fatto”. La voce della donna che si sbraccia e urla con tutta la forza che ha in gola al passaggio della macchina col boss, riesce anche a coprire le grida di gioia dei poliziotti. E’ l’altra faccia della camorra casalese, il consenso che è riuscita a costruire in questi anni. Non è necessario sfogliare dotti saggi di sociologia per capire, basta andare nel bar “Palma”, il più grande di Casapesenna. C’è chi alla vista dei giornalisti, qui accomunati alle “guardie”, poliziotti o carabinieri fa poca differenza, si allontana, chi sputa a terra in segno di disprezzo. Chi pronuncia parole dure. “Oggi è lutto per noi – dice un uomo parlando quasi da solo e non ammettendo domande -, Michele Zagaria portava lavoro, soldi e sicurezza. Tutto questo, sta gente venuta come in guerra non ce lo dà”. Parole amare che però non riescono a rovinare una giornata di festa. Il boss dei boss, l’ultimo capo dei casalesi è in galera. Finirà i suoi giorni in una cella. Le protezioni politiche sono finite. Hanno vinto uomini come Giandomenico Lepore, il capo della procura di Napoli che tra due giorni andrà in pensione, Federico Cafiero de Raho, coordinatore della Dda di Napoli che ha speso, insieme ai suoi pm, una carriera intera a contrastare la camorra casalese. Ha vinto la legge.

 

Cosentino (sì, lui):”Bravi i magistrati”

 Non  c’è un prima o un dopo. Non esiste una “politica dei due tempi” nella strategia di attacco alla camorra casalese costruita dalla Procura di Napoli. Giandomenico Lepore, il “grande capo”, come lo chiamano i suoi, tra due giorni andrà in pensione. Ieri era raggiante. “Ho chiuso in bellezza. I miei ragazzi e gli investigatori della Polizia mi hanno fatto il regalo più prezioso”, la cattura Michele Zagaria, l’ultimo grande capo dei casalesi. E’ lui ad aver stimolato l’analisi sulla vera natura del clan e ad aver disegnato, insieme a Federico Cafiero de Raho, il coordinatore della Dda napoletana, le strategie di attacco. L’organizzazione dei “casalesi” è un tutto unico, non c’è un’ala militare e una affaristico-politica. Non serve colpire prima un livello per poi arrivare a quello più alto e sofisticato. La violenza, gli omicidi, le stragi, il controllo ferreo del territorio, sono funzionali al rapporto con la politica. La capillarità dell’organizzazione nell’area aversana (il triangolo Casapesenna, San Ciprano D’Aversa, Casal Di Principe) serve ad eleggere consiglieri comunali, assessori, consiglieri provinciali e regionali, è indispensabile per portare deputati a Roma. E’ questa la strategia alla quale abbiamo assistito soprattutto negli ultimi anni, l’attacco deve essere unitario. Si arrestano picciotti e killer, ma anche i loro referenti politici sul territorio. Zagaria è il capo di un esercito, ma anche il grande imprenditore del cemento, degli appalti e della monnezza. La dimostrazione è nella straordinaria contemporaneità delle operazioni delle ultime quarantotto ore. Martedì mattina il blitz che ha colpito una serie di colletti bianchi (consiglieri comunali, funzionari di istituti di credito a Roma) e ha indotto i magistrati a richiedere nuovamente l’arresto dell’onorevole Nicola  Cosentino, nella notte l’inizio delle operazioni per la cattura di Michele Zagaria. Una strategia vincente.

Terra bruciata intorno ai “casalesi”, non più invincibili, non più potere politico-criminale intoccabile. Iovine, Setola, oggi Zagaria, sono in galera e non usciranno più. Francesco Schiavone è chiuso in una cella per sempre. Sono finiti, le loro ricchezze vengono sequestrate a centinaia di milioni di euro. Ci sono voluti anni di lavoro, scelte coraggiose come quella di aprire una sezione distaccata della Squadra Mobile a Casal di Principe in una villa sequestrata a un boss. Ci sono voluti magistrati tenaci, cresciuti nella lotta ai casalesi, uomini che hanno resistito ai feroci attacchi dalla politica sferrati ogni volta che si osava mettere le mani nel vero potere di uomini come Capatosta, Sandokan, ‘o Cecato: il rapporto stretto con gli intoccabili che siedono nei consigli regionali e a Montecitorio. Per questo appaiono fuori luogo e pietose le parole di circostanza e i complimenti di Nicola Cosentino, Nick ‘o mericano, che oggi plaude allo sforzo delle forze dell’ordine e della magistratura. Ma ci sono altri uomini nell’inferno dell’Aversano che hanno vinto. Quelli che hanno combattuto, spesso con armi spuntate e a loro rischio, il potere dei casalesi. “Nel summit che anni fa la cupola del clan organizzò per decidere la mia eliminazione c’era anche Capatosta, lo ricordo bene. Davo fastidio, c’era il processo Spartakus, dicevano che avevo acceso i riflettori, per questo Schiavone, Iovine e Zagaria si riunirono per risolvere il problema”. E’ una bella giornata per Lorenzo Diana, per anni senatore del Pci-Pds in  Commissione antimafia. Vive ancora sotto scorta, perché ancora vogliono fargliela pagare. “Siamo invecchiati, io Renato Natale, ma ce l’abbiamo fatta”. Lorenzo ora è in Idv e continua il suo impegno antimafia, Renato Natale è nel Pd. E’ stato l’unico sindaco comunista di Casale, la camorra lo odiava, gli faceva trovare quintali di sterco di bufala davanti alla porta del Comune, lo minacciava, progettò attentati contro di lui. Renato non ha mollato, è medico e fa il volontario nelle associazioni che aiutano gli immigrati di colore. A Casal di Principe e nei paesi vicini sono nate cooperative sulle terre di camorra, ci sono giovani che lavorano, prodotti col marchio di Libera che ricordano don Peppino Diana, il parroco ucciso nella sua chiesa perché “in nome del Signore” decise di non tacere. Antonio Cangiano, invece, non ce l’ha fatta. Alla fine degli anni Ottanta era vicesindaco comunista a Casapesenna, il paese di Zagaria. Voleva mettere ordine negli appalti, il 4 ottobre del 1988 gli spararono e lo ferirono gravemente. Ha vissuto per anni su una sedia a rotelle prima di morire.

(pubblicato su Il Fatto Quotidiano dell’8 dicembre 2011)