Nel Paese del boss
Dolci, barba, e tanta fede. Il superboss Michele Zagaria non ha rinunciato proprio a nulla in questi 16 anni di latitanza. Quei cinque metri di cemento armato che lo separavano dalla vita “terrena” non gli hanno impedito neanche di frequentare la piazza di Casapesenna. Non che in paese nessuno lo avesse riconosciuto, sia chiaro, ma è bene non generalizzare e ricordare il monito di don Luigi Ciotti “Casalesi è il nome di un popolo, non di un clan”. Lui, Capostorta, si sentiva protetto, ma non solo dalla rete di complici, collusi, amici. Zagaria faceva e fa, anche adesso che è rinchiuso dietro le sbarre del supercarcere di Novara, paura. E un “popolo” abbandonato alla mercè della camorra può lecitamente avere paura e di conseguenza tacere. Se in molti hanno aggredito i giornalisti che stanno asserragliando il paese in queste ore, martellando tutti, giovani e vecchi, con domande di routine del tipo “lei lo ha mai visto?”, “sapevate chi era?”, “siete contenti dell’arresto?”, come se gioire davanti ad una telecamera per la fine del capo dei capi del clan più spietato d’Italia, fosse una cosa indolore, in tanti, nel privato sicuro delle loro case e dei loro affetti, hanno tirato finalmente un sospiro di sollievo. Ma parliamo della gente comune. Chi invece comincia, o continua, a tremare sono i suoi familiari, prestanome, affiliati, quelli che in queste ore vengono perquisiti in tutta Italia dagli uomini della Guardia di Finanza. Verifiche sui patrimoni a partire da quelli di Caserta, dove Maresca, il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia, ha disposto 31 decreti di perquisizione. Non solo Caserta però: l’impero economico criminale di Michele Zagaria abbraccia tutto il centro nord: Bologna, Parma, Reggio Emilia, ma anche Sanremo. E poi c’è quell’I-Pad ritrovato nel “bunker” del boss, super attrezzato con tanto di televisori al plasma, l’immancabile copia del bestseller di Roberto Saviano, e finanche un poster di Che Guevara (forse più un omaggio alla devozione calcistica per Diego Armando Maradona che una condivisione ideologica della storia di Guevara). E’ lì che potrebbero essere contenute informazioni essenziali per far luce sul “sistema Zagaria”: elenchi di persone, complici e vittime, la mappa dei tesori del clan, gli appoggi politici e imprenditoriali.
Un duro colpo per quanti vedevano nella presenza del superboss l’unica fonte di sostentamento: “portava lavoro, ci dava il pane” dicono in molti. Ed ecco perché quando il boss andava dal barbiere a farsi rasare, perché essendo uno sciupa femmine ci teneva ad avere un viso liscio e pulito, non doveva guardarsi le spalle. Gli piacevano i dolci e se li andava a comprare in pasticceria di persona. Ma soprattutto, come nella migliore delle più assurde tradizioni mafiose, era religiosissimo, devoto a Padre Pio, e quindi abituale frequentatore della messa. In Chiesa, di fronte al prete, in mezzo ai fedeli. Per don Luigi Menditto, Michele Zagaria “era un parrocchiano come tutti gli altri al quale portare la parola di Dio”. Come tutti gli altri. Chissà se don Luigi Menditto ogni anno partecipa alle celebrazioni in memoria di un suo collega, don Peppe Diana, che per pensarla in modo opposto, fu trucidato, il 19 marzo del 1994 a Casal di Principe, da un commando dei Casalesi di Francesco Sandokan Schiavone. Era un prete anche Peppe Diana, ma per “amore del suo popolo” aveva deciso di non tacere, di non fingere che i camorristi fossero come tutti gli altri, non ebbe paura e pagò con la morte, la sua convinzione che la camorra non era degna della parola di Dio.
A don Giuseppe Diana, quegli stessi uomini battezzati e a cui quindi va portata la parola di Dio, non ebbero alcuna remora ad entrare nella casa del Signore ed eseguire l’ordine di uccidere quell’uomo che si era messo in testa di mobilitare tutta la Chiesa dell’agroaversano contro il loro clan, di salvare i ragazzi dalla piovra attraverso le attività della comunità scout, di entrare nelle scuole e spiegare che la vita era un’altra cosa, anche a Casale. Per lui nessuna pietà, doveva tacere e la sua morta doveva essere un segnale chiaro per tutti. Due colpi alla testa, e poi ancora uno in pieno volto, uno al collo e un altro ancora ad una mano. E’ evidente che qualcuno il messaggio lo ha recepito forte e chiaro e non è disposto a dimenticarlo neanche a distanza di tanti anni. Ma il messaggio di don Diana, vivo, fa ancora oggi più rumore di quei colpi di pistola. Scriveva don Diana: “Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere segno di contraddizione”. Come battezzati in Cristo, come Michele Zagaria. (pubblicato su www.lindro.it)