La mafia dell’economia

C’è una immagine che aiuta subito a rendere chiaro come la provincia di Trapani sia “scrigno” di inconfessabili segreti. L’immagine “educativa” in tal senso è quella scattata a Castelvetrano, cuore del Belice trapanese, era il 5 luglio del 1950, siamo in via Mannone, cortile De Maria. Riverso per terra, faccia rivolta sul selciato, c’è il corpo senza vita del bandito che era il terrore delle popolazioni siciliane dell’epoca, Salvatore Giuliano. Una foto che ancora oggi fa il giro del mondo. Il delitto di Salvatore Giuliano e la stessa vita del bandito di Montelepre è il primo mistero siciliano del dopoguerra e ancora oggi se ne sentono gli strascichi. Certamente quell’immagine di quel cadavere senza vita riverso a terra nel cortile De Maria fu frutto di una sceneggiata, una messinscena organizzata dalla mafia e tollerata dalle istituzioni. La prima di tante altre “fiction”, ma non da teleschermi. Trapani subito dimostrò le sue capacità a offrire gli spazi giusti per questi inciuci criminali. Castelvetrano era già la città di Francesco Messina Denaro, il “patriarca” della mafia belicina, che subito guadagnò “galloni” nel campo di Cosa nostra, quando don Ciccio ufficialmente non era nessuno, e Bernardo Provenzano era già un latitante, era quest’ultimo, e non l’altro, a recarsi a trovarlo: guidando la sua 500, Binnu, il “padrino” di Corleone giungeva a Castelvetrano, lui al cospetto di Messina Denaro, e non viceversa.

 Oggi Matteo Messina Denaro latitante dal 1993, figlio quasi cinquantenne di Francesco, nel frattempo morto, in latitanza, nel 1998, è l’erede del padre ma anche di don Binnu. Inciuci e intrecci sono la sua specialità. Ha le mani sporche di sangue e con queste gestisce la nuova mafia, quella sommersa, che fa impresa e le stesse mani che hanno piazzato le bombe per piegare lo Stato verso la trattativa. La mafia trapanese è cresciuta dal dopoguerra in poi all’ombra di istituzioni gestite da uomini che avevano un compito prioritario, spendere la migliore energia a negare l’esistenza della mafia e a chiamare “sbirro” chi indagava, quasi indicandolo al pubblico ludibrio, come per esempio è stato intercettato a fare l’ex vice presidente della Regione Sicilia, l’on. Bartolo Pellegrino. Inciuci di morte.  Il 2 aprile del 1985 in una curva di Pizzolungo i mafiosi, ma non solo i mafiosi, come spesso si sente dire per i delitti più eccellenti commessi a Trapani, piazzarono una autobomba che fece strazio di una donna e dei suoi due figlioletti. Erano su una automobile, guidava Barbara Rizzo Asta, portava Salvatore e Giuseppe, gemelli di sei anni a scuola, fecero da “scudo” al momento della esplosione ad una Fiat Argenta sulla quale si trovava il magistrato Carlo Palermo che scortato stava raggiungendo il Palazzo di Giustizia dove da meno di 40 giorni svolgeva le funzioni di sostituto procuratore. Il pm si salvò, la scorta anche. “Salvezza apparente”, il magistrato fu preso e portato lontano da Trapani e poi fuori dalla magistratura, era andato a toccare fili ad alta tensione: mafia, politica, affari, traffici di droga e di armi, soldi neri nelle casse dei manager socialisti, aveva osato sfidare il potere che l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi si era costruito attorno. Davanti ai corpi dilaniati dal tritolo, quelli di Barbara e dei suoi due gemellini, l’allora sindaco di Trapani, Erasmo Garuccio, intervistato da Enzo Biagi in diretta tv, ebbe a dire che a Trapani la mafia non esisteva. A più di 20 anni da quelle dichiarazioni, quando sono decine le sentenze che certificano in via definitiva l’esistenza della mafia, la cupola regionale e quelle provinciali, la presenza di Cosa nostra nelle istituzioni, l’oramai divenuto ex sindaco di Trapani Erasmo Garuccio sentito in un processo di mafia in Tribunale a Trapani sollecitato dal pm Andrea Tarondo è tornato a dire che per lui quell’affermazione non era infondata. Nessun passo indietro, né mea culpa, “non ho cambiato idea” ha detto rispondendo ad un pm rimasto quasi senza parole. Nel frattempo nel 2001 candidato alle nazionali per Forza Italia nel collegio di Trapani arrivò il figlio di Bettino, Bobo Craxi.

 Qui a Trapani  c’è la mafia borghese, non ci sono più da decenni coppole e lupare, qui c’è la mafia che frequenta i salotti buoni, qui non c’è l’estorsione, c’è l’impresa che è cresciuta abituata a pagare la quota associativa a Cosa nostra. Qui quando si arresta un padrino non si coglie l’occasione per colpire a morte l’organizzazione, ma si sta fermi e si aspetta che venga nominato il suo erede. La mafia trapanese è quella che per anni riuscì a tenere incagliati, chiusi negli armadi del Palazzo di Giustizia, una serie di processi: dovevano essere celebrati nel 1980, per vedere i relativi boss imputati alla sbarra di anni ne sono occorsi quasi 20. A Trapani è stato tributato onore ai mafiosi,quando uno di questi morì, Calogero “Caliddo” Minore, niente impedì per lui un funerale affollato nella Basilica della Madonna, la città si mise il lutto e il maggiore quotidiano, il Giornale di Sicilia, ne celebrò le gesta di grand’uomo. A Trapani sono stati nascosti i capi di Cosa nostra del calibro di Totò Riina nonostante ci fossero in giro gli agenti dei servizi segreti, a cominciare da quella di Gladio, e grazie a intrecci “pesanti” sulle rotte attraversate dai carichi di armi e di droga, viaggiavano anche i rifiuti tossici.

 La nuova mafia quella che a Trapani ha avuto come capo l’imprenditore di Paceco Francesco Pace (nome che a Rostagno nei suoi editoriali del 1988 non era sfuggito) nell’ultimo decennio si è gettata a capofitto nei grandi appalti, non trovò nessuno a fermarlo. Ci provò un prefetto, Fulvio Sodano, ma di colpo nell’estate del 2003 Sodano si trovò trasferito ad Agrigento. Era in carica il Governo Berlusconi e sottosegretario all’Interno era il senatore trapanese Tonino D’Alì. Non si sa ancora oggi se sia stato davvero lui a farlo trasferire via da Trapani, i mafiosi però intercettati parlando di Sodano non facevano altro che augurarsi che presto venisse allontanato dalla città. E furono accontentati.

 Trapani in tantissimi anni ha avuto occasioni di riscatto. Qui hanno lavorato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dicevano, se a Palermo c’è la mafia militare, a Trapani c’è quella economica. Trapani ha avuto un dirigente di Squadra Mobile, Giuseppe Linares, che dopo avere preso tutti i latitanti che c’erano, quando si è messo sulle tracce dell’ultimo, Matteo Messina Denaro, ha ottenuto la meritata promozione ma anche la rimozione dal gruppo che, si dice, dà la caccia al boss. La sensazione è quella che Matteo Messina Denaro verrà preso quando sarà tempo di essere preso, come è accaduto ai grandi super latitanti, e lui è un super latitante già solo per i segreti che si porta dentro. E allora, se deve essere una cattura a tempo, nessuno deve cercarlo. Una decisione certamente non scritta, perché in effetti il boss viene cercato. Ci stanno pensando i “soliti noti”: i poliziotti della Squadra Mobile di Trapani oggi diretti dal vice questore Giovanni Leuci. Tosti questi “trapanesi”, fanno parte del “gruppo”, lavorano adesso nel “cuore” della questura di Palermo da dove sono state dirette altre catture, ma il “sistema” seguito non è il loro. A Palermo i latitanti sono stati catturati seguendo spesso i fili del racket, del pizzo, non è questo però un filo che riguarda Cosa nostra trapanese, dove non si paga il pizzo, dove non esistono libri mastri del racket, ma semmai qui si continua a pagare la quota associativa alla Cosa nostra di Matteo Messina Denaro. Quindi i poliziotti trapanesi continuano a dire che il sistema deve essere quello loro, seguire, dopo averlo scoperto, e tirato fuori dal sottoterra, il filo che lega imprese, appalti e politica. Non hanno però vita facile questi poliziotti…..spesso si trovano senza soldi per missioni e straordinari….ma per loro non è una novità…e mai si sono fermati…

 Un discorso a parte meritano i carabinieri che si sono specializzati in questi anni a prendere i latitanti che si sono rifugiati all’estero.

 La società trapanese si è limitata sempre a guardare tutto questo, tutto quello che le accadeva intorno come se niente fosse affar suo, a Trapani non c’è grande voglia di leggere o di  sentire raccontati determinati fatti, ma per la verità non c’è un grande coro dell’informazione.

  A Trapani è lo scirocco il vento più impetuoso che porta la sabbia del deserto, granelli di sabbia che una volta raccoglievano le cose peggiori e contaminavano tutto quello su cui si posavano, oggi questi granelli raccolgono di tanto in tanto anche cose nuove, per esempio l’impegno, il desiderio di legalità, la voglia di azzerare la mafia di tanti giovani, e la contaminazione è cambiata. Grazie per esempio ai giovani di Libera o di alcuni circoli che si sono intestati battaglie di  libertà, vera e non apparente. Hanno da cancellare una cruda realtà. Ci sono voluti quasi 25 anni per pensare a celebrare nel modo giusto le vittime di Pizzolungo, ci sono voluti  21 anni per dedicare una via di Trapani a Mauro Rostagno, il sociologo e giornalista che ogni giorno dagli schermi di Rtc metteva alla berlina la mafia ed i suoi complici, e per questo fu ucciso il 26 settembre del 1988, ci sono voltui 23 anni per vedere cominciare un processo per questo delitto, ma sono bastati pochi giorni per collocare su una via del porto di Trapani una targa che ha dato nuovo nome a quella strada, la “via dei grandi eventi”, in onore delle gare di selezione della Coppa America del 2005 che ebbero come scenario il mare delle Egadi e il porto di Trapani. “Grandi eventi” che da Trapani in poi hanno significato solo una cosa, mettere assieme una “cricca” tra politici, imprenditori e mafiosi per fare affari.

 A Trapani la mafia oggi fa le truffe e paga le mazzette per restare a galla. La corruzione è il suo nuovo campo d’azione. E si scopre che corrotti ci sono anche dentro le forze dell’ordine. Ma non tutti lo vogliono sentire dire.

 

 (pubblicato su I Siciliani giovani dicembre 2011)